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ESISTE UN VERO AMORE CHE NON SI OCCUPA DEL PROSSIMO

Tutti i giorni incrociamo una quantità di persone di cui non sappiamo nulla. Non parlo degli sconosciuti totali. Mi riferisco a quelli che ci parlano, ci sorridono, ci comunicano delle cose, quelli che frequentiamo in un modo o nell’altro. Nella maggioranza dei casi, non sappiamo assolutamente nulla di ciò che sta succedendo dentro di loro, in profondità. Questo vale anche per noi naturalmente. Quante volte abbiamo sorriso educatamente, simulando un perfetto buon umore, quando invece avevamo la morte nel cuore, o la noia ci faceva dubitare del senso delle nostre azioni quotidiane, del nostro stesso stare lì con quelle persone? Quante volte vorresti solo un abbraccio e invece ti ritrovi infognato in chiacchiere assurde, in consigli e luoghi comuni?

Tutto questo, negli altri, in noi, genera un’enorme fatica. Energeticamente ci piomba a terra, ci rallenta, ci depaupera. Non nutre. Finisce per essere un brusio di sottofondo nel nostro quotidiano, un’illusione di frenetica vita sociale, inutile all’anima, alla mente, al cuore. Già, ma che fare? È inevitabile, si dirà.

Personalmente sono arrivata alla conclusione che bisognerebbe fare come gli alberi con le foglie d’autunno: lasciarle ingiallire, arrossire, imbrunire e poi cadere. Non con disprezzo, tutt’altro. Con gratitudine piena. Con la neutralità dell’albero. Pensieri, rapporti, incontri, tutto il “senza colore” della nostra vita… Lasciare andare la sovrastruttura nelle relazioni interpersonali e vedere cosa resta. Niente? Allora basta. Qualcosa? Allora, vale la pena.

Come sempre Jung (nel “Libro rosso”) trova parole forti e giuste: “Lasciate cadere ciò che vuole cadere; se lo trattenete, vi trascinerà con sé. Esiste un vero amore che non si occupa del prossimo”

Sì proprio così. Mi capita spesso che le persone, anche quelle che conosco poco o incontro per caso si raccontino a me con assoluta naturalezza e schiettezza. Le più straordinarie, hanno tutte la medesima caratteristica: se ne fregano di ciò che penserò di loro, sono perfettamente neutrali di fronte a me, nel vivere la loro confidenza, quel preciso stato d’animo e momento.

Col tempo ho imparato a fare altrettanto. Naturalmente spesso passo per eccentrica “diversa” antipatica forse. Ma il più delle volte, ho proprio l’impressione di fare l’effetto di un ricarica-batterie.

Ed è esattamente ciò che provo quando incontro persone così, libere d’essere, mostrare cicatrici, visioni, limiti. La loro energia mi crea una strana dopamina creativa, mi dà una vista più acuta per individuare la bellezza, una gioia diffusa e ingiustificata.

GLI ALTRI sono probabilmente il viaggio più emozionante che possiamo fare nella vita, potenzialmente sono mondi infiniti da esplorare, aperture intellettuali insospettabili, sentimenti sorprendenti, tappe di delicate combinazioni dell’Universo che possono portare lontano…

Come quando in Malesia m’imbattei in John, partito da un giorno all’altro alla ricerca dell’albero più grande del mondo; o il tizio innamorato della moda Armani che sognava ad occhi aperti nel suo negozio in un villaggio Berbero; o quando a Londra presi fra le mie, le mani gelate di uno sceicco del Bahrein morto di freddo, che da quel giorno decise di vegliare a distanza su di me, per sempre. O quando, all’epoca in cui davo corsi serali in Francia, invitai una donna timida che non osava entrare in classe a restare con noi. Da anni subiva le violenze di un ex marito che per quanto allontanato, continuava a terrorizzarla al punto da non farle più mettere il naso fuori di casa dopo le sette di sera. Fu l’inizio di un cambiamento di vita per lei e una grande lezione per me.

Riverberare ciò che si è, senza invadere il territorio dell’altro, regala ricchezze incredibili, scambi d’umanità vera. A tutti. Se ci pensassimo qualche volta, quando al mattino usciamo di casa, forse alzeremmo gli occhi dal telefonino più spesso. May You live In Interesting Times augurava la Biennale di Venezia quest’anno. E aggiungo May Great Surprises await us !! 

“BROKEN NATURE” LA TRIENNALE DI MILANO S’INTERROGA…MA POI?

Broken Nature: Design takes on Human Survival così s’intitola la XXII Triennale di Milano (1-3/1-9 2019) e l’intento è evidente: indagare, nei modi più svariati, surfando fra passato e futuro avveniristico, sui legami dell’uomo con l’ambiente naturale, ambiente gravemente compromesso dalle decisioni scellerate della nostra civiltà. Architettura e design devono/dovrebbero (non riesco a decidere quale verbo usare e non sono la sola) reinterpretare il rapporto fra esigenze di vita di tutti noi e contesto in cui viviamo. Insomma l’eterno, insolubile dilemma fra ecosistema sociale e naturale è il punto di partenza per questa mia breve riflessione.

Sì, perchè siamo tutti dalla parte dell’ecologia, fino a quando in cima ad un vulcano non dobbiamo lavarci con un litro d’acqua gelata a testa; siamo tutti per la raccolta differenziata fino a quando “non ci scappa” in piena foresta pluviale; siamo tutti “due-cuori-e-una-capanna-basta-la-passione” fino a quando non passiamo l’inverno in tête à tête in una bicocca senza riscaldamento. Conosco coppie che dopo una simile esperienza si sono lasciate così duramente da non salutarsi più per le strade di Parigi.

Ci siamo abituati alle comodità e le nostre comodità costano caro all’ecosistema. Tornare indietro è molto difficile, pressochè impossibile. E poi, non so voi, ma a me, le soluzioni abitative che preservano l’ambiente appaiono sempre come strani incubi notturni, fantasie appunto. Le guardo, talvolta le ammiro, ma poi – mi dico – devo tornare a casa mia. E casa mia, a Venezia, ha circa 1570 anni. Il design flirta con lo spettacolo. Le sperimentazioni più svariate sono forme d’arte, poi c’è la vita reale e il problema della vivibilità su larga scala resta.

Certo possiamo evitare gli sprechi, bandire il più possibile la plastica dalla nostra vita (ricordandoci che non riguarda soltanto il supermercato dove facciamo la spesa), usare materiali naturali, fare la doccia anzichè il bagno, ma è difficile immaginare di vivere su un albero, nè facciamo tutti i guardaboschi come il signor Peter Wohllenben (autore di best sellers sulla vita degli alberi).

Può sembrare pericoloso ciò che affermo, ma non lo è. Secondo me, confrontarsi davvero con la realtà è il primo passo verso diverse possibili soluzioni al problema. Delirare sul futuro non serve, vivere come gli Hamish è ridicolo, diversificare le strategie invece, sarebbe, tanto per cominciare, molto più saggio.

Non è un caso che all’interno della Triennale ci sia la Mostra “La Nazione delle Piante” curata da Stefano Mancuso. Perchè è proprio da loro, dalle Piante, che può venire l’insegnamento vincente per un approccio utile alla creazione di soluzioni non-o-poco predatorie nei confronti dell’ecosistema. Non c’è problema in Natura che le specie non affrontino con strategie ad personam, o per meglio dire, ad plantam. Insomma per una volta, essere noi uomini ad adattarci alle diverse circostanze… un po’ come facevano i Maya che non rendevano santi, luoghi di loro scelta, ma eleggevano i siti sacri sulla base delle qualità energetiche specifiche del posto.

Dal Messico: A SAN JUAN de CHAMULA (Chapas) LA POLIZIA NON ENTRA

Oscar, l’autista, mi raccomanda di far sparire il cellulare, la macchina foto e di farmi piccola quando entriamo nella chiesa di S.Juan.

Una parola! In mezzo a gente alta un metro e cinquanta, capelli corvini e pelle color tabacco! Ma in realtà a me nessuno farà caso (e infatti qualche fotina l’ho scattata per voi he he…)

 

Questa follia è autentica e tutta loro: di una comunità che parla ancora un dialetto di derivazione Maya, figlia di gente che all’arrivo dei Conquistadores spagnoli, preferì il suicidio di massa.

L’interno della chiesa, priva d’altare ma consacrata cattolica a modo suo – un prete ogni tanto viene portato da San Cristobal a dir Messa per poi tornarsene via a far finta d’ignorare ciò che qui accade – è colorato e kitsch come un quadro di Frida Khalo: ai lati della navata centrale, una sfilza di statue di Santi e Sante rigorosamente separati, con altari e altarini pieni di fiori e festoni.

Ovunque candele in vetro e per terra, a steli lunghi e sottili consumate nei riti degli Shamani. Si cammina su un tappeto di aghi di pino continuamente raccolti e rinnovati, e tutto questo ammorba l’aria fumosa d’incenso, di profumo dolciastro di Natura che appassisce. 

La gente s’accalca ovunque, vestita in modo tradizionale: lunghe sottane nere per le donne e scialli ricamati a fiori sgargianti; gli uomini, col cappello da cowboy indossano cappotti e gilet di lana, pelosa come una pelliccia di fattura grezza, stretti da alte cinture. 

È così tutti i giorni. Intere famiglie s’accucciano per terra attorno al brujo. Sono venuti con il necessario, candele, uova, fiori, un gallo o una gallina.

 

Mi sistemo in un angolo alle spalle di una vecchia shamana. Da poco sono state ammesse anche le donne, ma è l’unica soddisfazione che avrò: in questo paese di 58000 abitanti, la donna deve servire l’uomo, camminargli un passo dietro.

A 13 anni è già sposa.

Vedo madri poco più che adolescenti, con bimbo stretto in una fascia sul ventre.

 

Il rito della bruja comincia.

Bisbiglierà orazioni per due ore, accendendo le candele in fila fino a consumazione. Sulla pozza liquida che si formerà, getterà Posh (un alcool a 60 gradi  che si passano anche per farsi un goccetto!) e Coca-Cola ( chissà perché).

La famiglia ha affidato la sua richiesta alla shamana, queste le prime offerte. Poi la vedo strofinare l’uovo su una donna che le sta accanto, forse malata, infine invoca l’aiuto divino agitandole addosso il gallo…È un attimo, con destrezza spezza il collo all’animale che non emette gemito. Apparentemente il rito è finito.

Oscar mi sussurra che ora andranno al fiume dove la malata, volgendo le spalle all’acqua, getterà il cadavere nella corrente. “Si porterà via il male”.

 

 

 

 

 

 

Mi sento in un posto molto lontano e senza tempo. Fuori, gli uomini “pelosi” mi guardano con arroganza un poco ostile. La mia amica Lucia mi raggiunge un po’ preoccupata:

“Vieni via, qui la polizia non ci prova neanche ad entrare”. “Ah! – lancio una seconda occhiata agli uomini di Neandertal – e se uno ha bisogno d’aiuto, chi chiama? Zorro???”

 

LO SCULTORE G.M.POTENZA E L’ARTE D’ESSERE FELICE

E’ difficile tratteggiare in poche righe il ritratto di un artista vero, i blog sono uno strumento di divulgazione efficace ma, si sa, concedono poco spazio. Tuttavia credo che il Maestro Gianmaria Potenza non se ne offuscherà troppo, è raro trovare un artista tanto in linea con il nostro tempo, tanto in armonia con un se stesso costruito in decenni d’attività, attraversando gran parte del ‘900 e un ventennio del nuovo millennio con la propria arte.

Il suo volto è un riassunto perfetto della sua personalità: un incrocio fra il Michelangelo ritratto sulle vecchie banconote da 50.000 Lire e la maschera bonaria di un Geppetto che, in pace con se stesso e il mondo, crede in un bambino di nome Pinocchio. Sarà perché questo enfant prodige (nipote di razza di ben due zii, uno pittore, l’altro scultore) è stato sempre un artista imprenditore (ha fondato La Murrina punta di diamante nell’arte del vetro), uno che con la dissolutezza dell’artiste maudit non ha mai avuto a che fare. Sveglia presto, duro lavoro quotidiano con i materiali più diversi, una compagna di vita, conosciuta giovanissimo, purtroppo recentemente scomparsa, Madama Rossana, la sua intelligenza tutta racchiusa nella frase che amava ripetere: ”Dietro un grande uomo, c’è una (grande) donna stanca”.

Gli incontri decisivi della sua biografia – con l’architetto Marini a Venezia, con Joe Ponti a Milano – sono arrivati come un dolce naturale divenire della vita, perché “Ho sempre creduto nel futuro – dice – tutti i giorni mi sveglio allegro”. Liberando la figura dell’ARTISTA dalla retorica dei falsi miti e cliché, Potenza ha costruito pezzo per pezzo la sua arte, che ora vorrebbe racchiudere in un piccolo Museo per la posterità, accanto alla casa di fiaba dove è nato e vissuto nel cuore di Dorsoduro a Venezia. “Mi considero un artista del ‘500. Sono stato protetto dai miei committenti, architetti, Banche, Cantieri Navali…” afferma col piglio dell’uomo d’affari che è stato sempre, da quando prese in mano anche le redini dell’impresa di famiglia.

Sul mondo dei galleristi surfiamo insieme, con un sospiro mesto. Ma non c’è la minima rassegnazione nella sua analisi: guai a usare le derive negative della nostra società per giustificare l’abbandono dei propri sogni e progetti! Ci sono tante opportunità per i giovani, ma devono essere decisi, generosi, capaci d’attaccarsi al dente della ruota della fortuna, perché passa – è sicuro – e porta il nome di ognuno di noi.

Le sue parole, senti che sono autentiche:

“Io cerco l’emozione, lavoro con il cuore”

il segreto di Pulcinella di qualsiasi successo in fondo. Guardo il paravento che dipinse quando aveva dodici anni, evoco Matisse, Miro’ “Ma io non sapevo neanche chi fossero a quell’età” precisa; stesso scambio di fronte a certe sue sculture lucide e dorate “Pomodoro!” l’inutile esercizio di trovare paralleli nel mondo dell’arte  “Lo stimo – aggiunge – ma c’è differenza fra me e lui”.

Natura, Architettura, fonti costanti d’ispirazione, Venezia come Bisanzio, evocata dai suoi mosaici, ma i simboli  ripetuti ossessivamente come geroglifici sono il retaggio di reminiscienze ancor più primitive, vaste, oscure o marziane. La sua opera da decenni viaggia nel mondo, è internazionale, indecifrabile, contemporanea, antichissima. I suoi gufi porta-fortuna ci fissano dalle mensole del suo atelier.

La lunga, vaporosa barba bianca  ne accompagna il sorriso, gli occhi s’accendono quando confida:

“Ho partecipato a un concorso. Sono arrivato tra i sei finalisti! Aspetto risposte…”

Sorrido anch’io pensando a tutte le volte che ha esposto le sue opere alla Biennale di Venezia, ai riconoscimenti inanellati, alle consacrazioni di Istanbul, Hong Kong, New York e in Russia, in Lituania e negli Emirati Arabi…

Ma è il futuro ad interessarlo, un’altra sfida lo attende e una prossima Mostra a febbraio… E in quell’entusiasmo di fanciullo che ha già varcato la soglia della grande età, scopro la via della vera Saggezza e l’eterno segreto della Felicità.

(http://Gianmaria Potenza “Alfabeti sconosciuti e linguaggi simbolici” Editoriale Giorgio Mondadori)