“I segni, i colori, lo spazio, la luce” Le opere del marchigiano Paolo Gubinelli in Mostra a Villa Castello Smilea nel Comune di Montale (fino al 9 dicembre)
Di sé, dice che è burbero ed emotivo. Refrattario agli onori e ai bagni di folla. Estroverso soltanto con chi gli va a genio, per nulla attratto dalla popolarità, dai soldi rapidi, fatti reiterando le opere vincenti in forme cheap facilmente monetizzabili.
E ti chiedi come abbia fatto a maturare tante esperienze così profondamente iscritte nella storia dell’arte italiana: l’avanguardia milanese dei tagli di Lucio Fontana, lo spazialismo di Manzoni, le bruciature di Burri, le architetture nell’opera di Michelucci. Come ha potuto, dal suo nido nascosto fuori Firenze, incrociare la poesia più alta del dopoguerra italiano, illustrando raccolte di poemi di Mario Luzi, Franco Loi, Maurizio Cucchi, Alda Merini, Maria Luisa Spaziani, Andrea Zanzotto, Davide Rondoni… per citarne solo alcuni.
Ti chiedi come abbia fatto a collaborare così sovente – lui che non ama viaggiare – con artisti stranieri di grandissimo spessore, come Tony Harrison, Ko Un, Titos Patrikios, Adonis… e per quale concorso fortunoso di eventi – lui che non ha mai amato frequentare salotti pseudo-intellettuali e scuole benedette da correnti politiche – abbia potuto partecipare con Tonino Guerra alla 54 Biennale di Venezia nel 2011, invitato da Vittorio Sgarbi.
Evidentemente l’autentica creatività ha qualcosa d’intimamente connesso col divenire del tempo, s’avvale d’un esperanto speciale che unifica e attrae a sé le frequenze alte dell’espressione artistica in tutte le sue forme, siano esse musica, poesia, pittura, scultura.
“Solo l’arte, ormai completamente libera, ci può condurre a esplorare questi mondi inesplorati al limite della percezione“
scrisse non a caso Bruno Munari nel 1985, paragonati per assonanza proprio ai colori accennati degli acquarelli di Gubinelli, attraversati dai suoi famosi segni, linee da decriptare come messaggi venuti da un altro mondo, non ancora forme, lame prive di aggressività, sottili, ma incise, forse proprio per questo, nella pietra profonda della vita.
Mi piace sempre sentire dalla viva voce degli artisti la loro visione di sé, l’intenzione primigenia e il cammino, chiedere loro del viaggio e della felicità. I dubbi che assalgono i più grandi di potersi definire artisti, lo sguardo a ritroso nel tempo che genera infinite gamme d’urgenze e rallentamenti quasi mistici, si traduce in un dualismo costante fra insoddisfazione e pace interiore, nell’ossessivo desiderio di metter ordine fra le carte del passato – archivio, archivio di sé! – e necessità impellente d’avanzare nell’ascolto della propria voce interiore.
Nel 2004 Antonio Paolucci di fronte alle opere su carta parlava di ascetica pazienza e furiosa determinazione. E credo renda bene la personalità di opera e uomo, la sua passione per la vita e il suo ritrarsi, il suo venire e tornare sul segno, la piega, il taglio, il bianco assoluto, il colore annacquato e libero dunque, d’andar incontro alla luce per esserne trasformato. Dopo aver eseguito libri d’artista, opere su tela, ceramica, vetro, plexiglass dal segno geometrico rigoroso, la carta prevale nelle sue scelte, fragile, duttile – talvolta spessa e granulosa come antica pergamena, talvolta foglia trasparente cattura-luce – materiale semplice solo in apparenza.
L’incontro con i poeti lo ha forse reso più zen nel tempo?
Oppure è la vita stessa che addentrandosi nella fragilità, smussa gli angoli, edulcora, predilige il sogno e lo sceglie, a scapito dell’orgoglio, delle certezze assolute che paradossalmente abbiamo più forti nel tempo senza bordi della giovinezza?
Mi piace pensare a lui, nel suo giardinello o nel guazzabuglio di carte, libri e opere d’arte della limonaia, eletta a suo studio, suo regno e sua incubatrice, labirinto misterioso di nostalgie, sogni e ricordi.
Mi piace ringraziarlo per l’accoglienza nella sua casa e più ancora nei suoi pensieri, nel breve spazio di un giorno che conservo nella memoria come un talismano apparso per caso, mentre camminavo, concentrata sui miei passi.