CHIAMALA PER NOME
Durante questi mesi di presentazione del mio libro Cosa fanno le mie piante quando non ci sono e di conferenze sull’intelligenza del mondo vegetale mi è capitato molto spesso di ricevere le confidenze di lettori potenziali che a fine serata m’avvicinavano per sussurrarmi all’orecchio: “Anch’io alle mie piante ho dato un nome e ci parlo!” “La mia kenzia si chiama come mia nonna”. Senza potermi esimere dal sorridere di fronte a quell’aria di cospirazione, ho sempre risposto: ”Ha fatto bene” “È una cosa naturale, lo dica pure a voce alta!”.
Lo penso davvero. E non perchè si tratti di un divertimento innocente, ma proprio perchè al contrario è una faccenda profonda.
Dare un nome a qualcosa o qualcuno significa riconoscerlo come parte del proprio mondo affettivo-sentimentale. Nel bambino è segno che un balocco è entrato nella sua sfera emotiva con un valore simbolico e totemico preciso. Quando diamo un soprannome all’innamorato/a in un certo senso gli/le accordiamo una nuova genesi: “Sei rinato/a grazie a me, topolino/a mio/a!”
Puro narcisismo, dirà qualcuno. Sì certo, è un appropriarsi magico-egocentrico, ma con un fine forse meno egoistico di quanto si creda, sancisce una protezione, la vittoria del NOI, della nostra intimità sul mondo esterno, indifferente, spesso ostile. Quando diamo un nome a qualcosa o a qualcuno, lo definiamo a se stesso, contribuiamo a dargli un’identità e un ruolo importante nel nostro territorio emozionale.
Gli Aborigeni, pur ricevendo un nome alla nascita come tutti noi, sono soliti cambiarlo nel corso della vita, quando sentono d’aver bisogno di chiamarsi in modo più appropriato. Il nostro comportamento, le nostre scelte, lo stile, la nostra evoluzione, tutto contribuisce a definirci, tutto emana un’idea di noi che evoca una parola, un nickname o almeno una tonalità diversa nella pronuncia di quel nostro nome.
Perchè dunque non usare il nostro libero sentire anche per le nostre piante, se vivono con noi per anni? Perchè il fatto d’avere dei fiori bellissimi o aculei pungenti non dovrebbe influire sul loro carattere e sul nostro modo di percepirle?

Conosco persone con la passione smodata per le piante grasse, altre le odiano letteralmente, le percepiscono come ostili, inavvicinabili. Una volta mi presentarono un cactus di nome Crudelia. “In America Centrale si tengono cactus fuori dalla porta di casa perchè la proteggano – raccontai alla signora in questione – Tengono il male lontano. Forse Crudelia meriterebbe di chiamarsi Hero, come la canzone di Mariah Carey”.
Poco importa. Date i nomi che vi ispirano, assecondate il vostro sens of humour!. Ogni cosa ha il significato che le attribuiamo. La vostra Creatività crea un senso di clan benefico. Più parole abbiamo, più sarà vasta la comunità affettiva che ci circonda, più sarà ricco d’energia positiva il nostro universo.
Pare che la tribù dei Manu di Papua Nuova Guinea non conosca la parola AMORE. Io non ne sono affatto sicura… forse non abbiamo mai appreso che da loro AMORE si dice CRUDELIA.




E ti chiedi come abbia fatto a maturare tante esperienze così profondamente iscritte nella storia dell’arte italiana: l’avanguardia milanese dei tagli di Lucio Fontana, lo spazialismo di Manzoni, le bruciature di Burri, le architetture nell’opera di Michelucci. Come ha potuto, dal suo nido nascosto fuori Firenze, incrociare la poesia più alta del dopoguerra italiano, illustrando raccolte di poemi di Mario Luzi, Franco Loi, Maurizio Cucchi, Alda Merini, Maria Luisa Spaziani, Andrea Zanzotto, Davide Rondoni… per citarne solo alcuni.
Nel 2004 Antonio Paolucci di fronte alle opere su carta parlava di ascetica pazienza e furiosa determinazione. E credo renda bene la personalità di opera e uomo, la sua passione per la vita e il suo ritrarsi, il suo venire e tornare sul segno, la piega, il taglio, il bianco assoluto, il colore annacquato e libero dunque, d’andar incontro alla luce per esserne trasformato. Dopo aver eseguito libri d’artista, opere su tela, ceramica, vetro, plexiglass dal segno geometrico rigoroso, la carta prevale nelle sue scelte, fragile, duttile – talvolta spessa e granulosa come antica pergamena, talvolta foglia trasparente cattura-luce – materiale semplice solo in apparenza.
Oppure è la vita stessa che addentrandosi nella fragilità, smussa gli angoli, edulcora, predilige il sogno e lo sceglie, a scapito dell’orgoglio, delle certezze assolute che paradossalmente abbiamo più forti nel tempo senza bordi della giovinezza?
Io quest’estate sono andata alla ricerca della paura, IL SENTIMENTO sviscerato in centinaia di lettere e diari dall’uno e dall’altro fronte, come è facile intuire se si sale al Monte Piana, qui chiamato Monte Pianto, geograficamente separato da un semplice vallo, al Monte Piano, all’epoca in mano austriaca.
18000 saranno i morti soltanto qui, la maggior parte vinti non tanto dalle armi, quanto dagli stenti, il gelo, le malattie, i crolli e le frane o perché precipitati negli anfratti più aguzzi della montagna.
Il suo volto è un riassunto perfetto della sua personalità: un incrocio fra il Michelangelo ritratto sulle vecchie banconote da 50.000 Lire e la maschera bonaria di un Geppetto che, in pace con se stesso e il mondo, crede in un bambino di nome Pinocchio. Sarà perché questo enfant prodige (nipote di razza di ben due zii, uno pittore, l’altro scultore) è stato sempre un
Le sue parole, senti che sono autentiche:
La lunga, vaporosa barba bianca ne accompagna il sorriso, gli occhi s’accendono quando confida:
Le piante comunicano fra loro e con noi, alleandosi, proteggendosi reciprocamente, garantendo (almeno fin’ora) che l’ecosistema regga ai sussulti dei cambiamenti provocati dall’incuria e dall’ignoranza dell’uomo. Ma è ora di prendere coscienza che un nuovo modo di rispettare l’ambiente deve imporsi su scelte impulsive e utililitaristiche.

OMERO TARQUINI















Francesca lavora in Francia come giornalista e P.R. a Nizza e a Parigi presso le Camere di Commercio francese e italiana, dove scrive e cura pubblicazioni sull’immigrazione oltralpe.
Per vivere a Venezia lavora nel turismo creando una sua piccola società, ma la scrittura continua ad essere il potente, ineluttabile richiamo della sua vita – nel 2010 pubblica un noir sperimentale in francese La couleur de l’encre (Mokeddem Editions Paris) tradotto poi in italiano per Morlacchi Ed. Il colore dell’inchiostro (2014) – mentre la passione per l’arte, da sempre parte della sua formazione, la porta ad esplorare il mondo della creatività figurativa. Dal 2012 si dedica anche a organizzare Mostre di artisti contemporanei a Venezia, Ginevra e Roma, a curare cataloghi, scrivendo testi critici e collaborando con varie riviste, in particolare il magazine Prometeo (Mondadori).










































Venerdì 8 novembre 2013 – 17h00