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SCUSI LEI E’ FELICE?

 

In questi tempi di grandi migrazioni per una vita migliore, di crisi economica e ambientale, diffusa spiritualità o pseudo-spiritualità, intelligenza artificiale e grandi tuffi in mari di oblio, come la droga o l’alcool, mi sembra interessante dedicare una breve riflessione al senso della vita.
Per la verità ho sempre avuto la tentazione di andare in giro per il mondo a chiedere alla gente se è felice. Lo faccio molto spesso in realtà, in tutti i Paesi, dove mi capita. Se la conversazione s’allarga un po’, la butto là: ”Ma lei è felice?” “E tu? Sei felice?” A tutte le latitudini la reazione è sempre di grande sorpresa, larvato imbarazzo:

”Come felice?”
“Sì, felice”
“…così a bruciapelo…”
“Sì, così, d’istinto! Non si può rispondere alle domande più importanti riflettendoci”

È come chiedersi lo/la amo? Dev’essere un’evidenza. Il sì. Infatti spesso non arriva. Nella maggioranza dei casi, la testa ondeggia di qua e di là, s’attorciglia in modo complicato per dire e non dire:
”Mah, beh… – e poi per sottrazione – non mi lamento, ho questo e quest’altro…Felicità è una parola grossa!”
Grossissima, ne convengo. Ma semplice. E a forza di complicarci la vita su tutto, non siamo quasi più in grado di pronunciarla. Ne abbiamo un sacro terrore, roba da scemo del villaggio!

“Il fatto di progettare come arrivare a una meta, ci fa vedere il sentiero diritto, pieno di curve” dice il saggio. E certo ha ragione: primo ostacolo alla felicità è voler controllare tutto. La felicità ci sorprende se le lasciamo un po’ di spazio per respirare, liberare, rischiare delle gaffes, altrimenti è come pretendere di vincere alla lotteria senza comprare un biglietto”

Ma a questo punto si pone un altro problema: quanto chiedere alla vita (e a noi stessi)? Io le ho sempre chiesto moltissimo, lasciarmi soddisfare le mie passioni, i viaggi, lo scrivere, le case, d’amare e d’essere amata di vero amore…
Se si è esigenti, le delusioni sono sempre dietro l’angolo. La vita ha un peso, ma ti sorprende. L’altra è la soluzione buddhista, spesso genericamente riassunta e banalizzata nella frase “Non aspettarsi nulla”.

“No, per bacco! Se sono qua io mi aspetto, mi aspetto moltissimo! Se sono qua io ci provo a volare alto, senza contare che la felicità s’irradia, condivide, è utile a tutti – difficilmente un felice fa del male agli altri. E poi, che fine ha fatto la legge dell’attrazione?” ribattevo con la mia solita irruenza a José Alberto, un noto antropologo shamano di Mexico City. Lui si era limitato ad abbracciarmi forte e sorridere. Lo divertivo.
“Feliz? La questione non diventa più in questi termini, abbiamo diversi strati di coscienza, lo sai Francesca”

Lo sapevo certo, è più complesso. Ma anche un po’ inutile, come quando ti dicono che l’Universo è in continua espansione. Ok. Ma – continuo a abiettare – se tutto ciò che è, esiste in virtù dell’energia creatrice d’Amore, allora mi spiace miei guru, ma il problema della felicità umana resta.

Il Buddhismo più profondo invita in realtà a entrare in uno stato di non-mente, separato da passato e futuro, concentrato solo nel presente “mente vuota e cuore pieno” e li’ che si trova la felicità. Vero. Ma anche qui, ammettiamolo, la felicità su questa Terra si nutre di proiezioni sul divenire, progettualità. Come separare i sogni dalla nozione stessa di futuro?  

 

 

E allora? Allora, non si danno risposte in un blog, io mi limito a suggerire esplorazioni. E mentre scrivo, mi perdo in altre congetture, letterarie questa volta, penso a quella frase di Amos Oz in “Tocca l’acqua, tocca il vento”: “Cose sottili e sorprendenti succederanno presto” Ecco, sì, questa potrebbe essere una delle mie definizioni di felicità.