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QUANDO VA TUTTO MALE…

Quando va tutto male, faccio un passo in più e mi vivo la tristezza. Sì, per quanto assurdo, me la vivo, l’assaporo persino, vado fino in fondo e vuoto il barile. Mi ubriaco di lei.

Ho fatto tutto ciò che era possibile, spinto l’accelleratore, sfoderato il coraggio come una spada, gettato via i pesi non necessari, e alleggerito i pensieri – li ho colorati quand’erano grigi – poi ho ascoltato, compreso, ammorbidito, detto e ridetto, speso, lavorato sodo, scritto e riscritto, salito e sceso, percorso, fatto e disfatto. E sorriso, tanto! Ho tanto sorriso…

Ma non è bastato. Per ora. È andata male lo stesso. Succede, vero? Molto più spesso di quanto dicano i buoni predicatori.

E allora è giusto, per un giorno, una sera, un’ora, mollare gli ormeggi, andare alla deriva, godersi il silenzio e lo strappo dell’àncora, così, nel mero galleggiamento. Ci sarà tempo, poi, per reagire. Adesso vivo nella desolazione, è un mio diritto, lo chiedono il mio corpo e la mia mente vorace, il respiro affaticato, le spalle pesanti. Silenzio! Abbandono. Capogiro delizioso. Letto sfatto.

Quando va tutto male, mi lascio adagiare sul fondo del mare, riemergerò per forza, prima o poi. E vuoi vedere che qualcosa s’avvista alla fine, un pesce che salta, il sole che spunta?! Allora ricomincerò a battermi, chiaro! M’inventerò una corazza, raccoglierò i capelli, cavalcherò un’idea. Il vuoto si riempie sempre, i colori s’inventano da soli, l’erba ricresce anche sui sassi.

Succederà, e sarà bello pensare, che qualcuno mi ha dato una mano, perché io non stavo facendo nulla. Per una volta, non dovevo far nulla. Solo attendere la forza della corrente. Da qualche parte, dove è meglio per me.

CREARSI UN FREE SPACE PER SUPERARE QUESTA FASE DI STALLO

I media hanno festeggiato la fine del lockdown. I media! – preciso – perché la cosiddetta normalità è ben lontana ancora dalla vita vera della gente.

Al di là delle formule di rito infatti, molte persone mi hanno scritto rivelando un sentimento di grande frustrazione, malinconia, apatia. “Non è stata la gran festa d’opportunità che immaginavo” ”E adesso, cosa succede?” “Il ritrovarci, con quella persona, mi ha deluso”…

Non sono sorpresa. In questo momento le energie generali sembrano in stallo, sembra di vivere sospesi sulle nostre attese. Ci aspettavamo grandi soluzioni, in seguito a nostre grandi e piccole ri-soluzioni e invece…

Energeticamente invece passiamo attraverso continui up&down, fisicamente ciò si traduce peraltro in momenti di iperattività e in altri di grande spossatezza. Globalmente ci sono ritardi in tutti i campi. Molti di noi si sentono disillusi, siamo in attesa di eventi che devono accadere, che abbiamo invocato, ma non dipendono solo da noi. Di qui, un grande senso d’impotenza.

Cosa fare? La risposta non è facile. Perché non possiamo che passare attraverso l’accettazione. Non un’accettazione passiva e triste però. Dobbiamo darle una qualche ricchezza.

Un modo, può essere quello d’individuare un nostro free space, totalmente nostro, un concetto poco legato al tempo e allo spazio, o meglio legato, ma da un punto di vista energetico e spirituale.

Può essere rappresentato certo, da un interesse specifico: uno sport, la lettura, il giardinaggio, lo yoga, o da un talento: l’abilità manuale di fare oggetti, cucinare etc. Ma non solo. Il punto è nutrire lo spirito, la propria interiorità facendo queste cose.

Come? Si dirà. Grazie tante, ma come so che sto nutrendo la mia interiorità?
La risposta va cercata nella gratuità.

Non si tratta di dedicare il proprio tempo libero (free time e non free space) a questa o a quella attività per un risultato specifico (un record, un manicaretto, il premio “balcone fiorito dell’anno”…) ma di coglierne l’ispirazione, godendone almeno un momento in piena coscienza. Non m’interessa soltanto togliere il secco ai fiori delle mie piante per renderle magnifiche, ciò che è importante è fermarsi un attimo cogliendo la pace di un momento di contemplazione di noi stessi in ciò che stiamo facendo.

Chi può, faccia un esercizio di respirazione profonda, servirà a bloccare “la visione” di quel momento. Chi è più sensibile alla bellezza, si concentri sulla luce di quell’istante, il profumo, il suono sullo sfondo, una sensazione fisica.

I guru più esperti lo definirebbero “vivere un momento di eternità e l’eternità di un momento”. Più modestamente io cerco la benevolenza verso noi stessi. Benevolens, la voluntate benefica dei latini, attiva dunque, generatrice, perché “accorgersi” sospende il correre di quelle lancette d’orologio (che, con il loro giudizio, ci ossessionano) unendo benessere fisico, mentale, energetico.

Tutto in fondo è una forma di meditazione. Potremmo dire che si tratta di questo, ognuno lo fa a suo modo. “Meditare è osservare a fondo la natura delle cose” scrive il monaco vietnamita Thich Nhat Hanh in “Insegnamenti sull’amore”.

La pratica della consapevolezza è più alla nostra portata di quanto si possa pensare. E ci può aiutare, ci può aiutare in questo falso momento di normalità.

LA MORTE DI EZIO BOSSO E IL RITORNO ALLA NORMALITA’

Ha colpito tutti la morte di Ezio Bosso. L’artista era straordinario tanto quanto la persona – di famiglia umile, non certo nel giro aristocratico della musica – ma è la lezione dell’uomo che prevale, pensando a lui. Non basta essere malati di una malattia terribile, degenerativa, appunto – una che non solo non ti lascerà mai, ma peggiorerà sicuramente, torturandoti – bisogna aggiungere la gioia di un uomo che aveva trovato la sua passione di vita, aveva saputo coltivarla, meritarla, condividerla e appunto essere felice. Uno scandalo dunque, insopportabile! Quando l’esistenza viene onorata, dovrebbe essere lasciata libera di volare. E invece no, spesso s’abbrevia, si sacrifica, s’addensa in distillato d’anni contati.

Nonostante il dolore, le menomazioni fisiche, la difficoltà di esprimersi, Ezio Bosso sapeva essere gentile, disponibile, grato, umile e istrionico al tempo stesso. Questo colpisce in assoluto, se guardi le sue interviste, quella volontà di esistere, quell’entusiasmo nel conservare il bello e dimenticare il brutto.

Le sue parole sono cosi’ profonde e ispirate che stenti a crederle pronunciate da un uomo affascinante e giovane, condannato a soli 48 anni. E sembra proprio calzargli a pennello “La fine è il mio inizio” il titolo dell’ultimo libro di Tiziano Terzani, scritto pero’ da un vecchio, con lunga barba bianca da guru.

Ezio Bosso possedeva una spiritualità laica, applicata alla vita quotidiana che traduceva in comportamenti concreti, come quando diceva “di tenersi stretti i momenti felicivivendoli fino in fondo, usandoli “come maniglia per tirarti su quando non riesci ad alzarti”. C’era un’accoglienza silenziosa, quasi mistica, nel suo modo ‘arreso’ ma non vinto, di vivere la malattia, come un nuovo capitolo, o una nuova stanza dell’esistenza.

Ho spesso pensato, incontrando persone cosi’, a una verità spaventosa, che il dolore possa rendere alcuni di noi – i migliori – più profondi, più visionari, che accenda i loro occhi di maggiore splendore e renda la loro voce più dolce, intrisa di saggezza illuminante per gli altri.

E come stride, accanto ai ricordi del Maestro che si rincorrono sui social, la solita carrellata di notizie, notizuole, polemiche, protagonismi pretestuosi sul ritorno alla normalità (parola strana!) la Fase 2, 1, la 3! Andremo in spiaggia, come ci andremo… e tornerà la seconda ondata di contagi in autunno? Non è concluso maggio che già ci guastiamo ottobre. Sembra di finire di colpo in cantina, senza luce, dopo aver sostato un’ultima volta nel giardino interiore di Ezio Bosso.

E ci vergognamo un poco, ammettiamolo, di lamentarci di questo e di quello, e di chiederci il perché di tutte le cose che non vanno nella nostra vita. Inutili, tortuosi labirinti di pensiero che c’imbrattano i giorni di meschinerie, paure piccole, indolenzimenti mentali, privandoci dell’energia e della leggerezza che dovremmo invece serbare per le cicatrici del presente e del futuro.

Perché questo ci ricordano uomini come Ezio Bosso: il paradosso senza fine, che gli ostacoli sono insegnanti, il dolore, una scuola inevitabile. E mi piace dedicare al Maestro una frase di Khalil Gibran “Il dolore è troppo grande per regnare in piccoli cuori”.

GLI ICEBERG IN QUARANTENA

Ammettiamolo, c’è stata molta retorica sul ritrovarsi amoroso delle coppie confinate in casa. C’è chi ipotizzava perfino un futuro baby boom, a testimoniare della straordinaria opportunità di ricominciare, regalataci dal COVIT!

La realtà sembrerebbe meno rosea. Crisi latenti si sono acuite, la noia – non più evitabile – per alcuni si è convertita in discussioni continue, silenzio ostile, freddo glaciale. Per non parlare dei casi di violenza, aggravati dalla convivenza forzata, in tutta Europa. Attivate molte soluzioni d’aiuto ovunque: in Francia, ad esempio, se ci si sente in pericolo ed è troppo rischioso telefonare da casa, una frase in codice puo’ essere pronunciata in farmacia o al supermercato per chiedere aiuto.

In verità, l’allontanarsi di due persone è molto più che una questione geografica. Ed è cio’ che, paradossalmente ho voluto narrare nel racconto d’avventura Iceberg contro Iceberg 

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dove la protagonista si sente tradita su differenti piani e si chiede: Cosa unisce davvero? Qual’è il valore di un percorso fatto insieme?

Ognuno di noi racconta la propria storia d’amore in modo diverso, perché l’ha vissuta e percepita fin dall’inizio in modo diverso, nutrendola delle proprie illusioni e delle proprie paure.

Spesso alla base di una crisi c’è un grande fraintendimento. Poi, certo, la vita complica col suo carico di prove, imprevisti, sorprese, responsabilità. In questo senso, l’evidente egoismo del protagonista maschile di Iceberg non è altro che puro analfabetismo sentimentale. Difficilmente sappiamo amare, se non siamo stati amati. Di qui, la vera questione: Come identificare l’amore? Come dare, senza perdersi, in quel dare? E siamo certi poi, di chiedere “vero amore” all’amore?

Il percorso della vita è individuale, non dovremmo mai dimenticarlo, per amore di noi stessi prima di tutto, rammentandoci con Novalis che “Libertà e amore sono una cosa sola”.

In questo forse consiste la crescita, implicita nell’esperienza, positiva o negativa che sia (ed è sempre un po’ tutte e due le cose). “L’amore è un insegnante migliore del dovere” diceva, non a caso, Einstein, la sua lezione, tuttavia, è spesso molto più severa. Per Joan, la protagonista di Iceberg è dura come un pezzo di ghiaccio, ma è anche il solo modo per uscire dal labirinto di una sofferenza antica e provare a respirare la brezza di un’avventura tutta nuova.

E quanto vorrei che la scrittrice ch’ero, allora (uno scrittore puo’ molto, anche se non tutto, per i suoi personaggi!) avesse concluso il racconto di Joan con parole analoghe a quelle di George Sand: “Io ho sofferto più volte, mi sono spesso ingannata, ma ho amato: sono io che ho vissuto e non un essere fittizio creato dal mio orgoglio e dalla mia noia”

(in vendita a Euro 3.99 su Amazon.it o sul sito Francesca Schaal Zucchiatti)

SCUSI LEI E’ FELICE?

 

In questi tempi di grandi migrazioni per una vita migliore, di crisi economica e ambientale, diffusa spiritualità o pseudo-spiritualità, intelligenza artificiale e grandi tuffi in mari di oblio, come la droga o l’alcool, mi sembra interessante dedicare una breve riflessione al senso della vita.
Per la verità ho sempre avuto la tentazione di andare in giro per il mondo a chiedere alla gente se è felice. Lo faccio molto spesso in realtà, in tutti i Paesi, dove mi capita. Se la conversazione s’allarga un po’, la butto là: ”Ma lei è felice?” “E tu? Sei felice?” A tutte le latitudini la reazione è sempre di grande sorpresa, larvato imbarazzo:

”Come felice?”
“Sì, felice”
“…così a bruciapelo…”
“Sì, così, d’istinto! Non si può rispondere alle domande più importanti riflettendoci”

È come chiedersi lo/la amo? Dev’essere un’evidenza. Il sì. Infatti spesso non arriva. Nella maggioranza dei casi, la testa ondeggia di qua e di là, s’attorciglia in modo complicato per dire e non dire:
”Mah, beh… – e poi per sottrazione – non mi lamento, ho questo e quest’altro…Felicità è una parola grossa!”
Grossissima, ne convengo. Ma semplice. E a forza di complicarci la vita su tutto, non siamo quasi più in grado di pronunciarla. Ne abbiamo un sacro terrore, roba da scemo del villaggio!

“Il fatto di progettare come arrivare a una meta, ci fa vedere il sentiero diritto, pieno di curve” dice il saggio. E certo ha ragione: primo ostacolo alla felicità è voler controllare tutto. La felicità ci sorprende se le lasciamo un po’ di spazio per respirare, liberare, rischiare delle gaffes, altrimenti è come pretendere di vincere alla lotteria senza comprare un biglietto”

Ma a questo punto si pone un altro problema: quanto chiedere alla vita (e a noi stessi)? Io le ho sempre chiesto moltissimo, lasciarmi soddisfare le mie passioni, i viaggi, lo scrivere, le case, d’amare e d’essere amata di vero amore…
Se si è esigenti, le delusioni sono sempre dietro l’angolo. La vita ha un peso, ma ti sorprende. L’altra è la soluzione buddhista, spesso genericamente riassunta e banalizzata nella frase “Non aspettarsi nulla”.

“No, per bacco! Se sono qua io mi aspetto, mi aspetto moltissimo! Se sono qua io ci provo a volare alto, senza contare che la felicità s’irradia, condivide, è utile a tutti – difficilmente un felice fa del male agli altri. E poi, che fine ha fatto la legge dell’attrazione?” ribattevo con la mia solita irruenza a José Alberto, un noto antropologo shamano di Mexico City. Lui si era limitato ad abbracciarmi forte e sorridere. Lo divertivo.
“Feliz? La questione non diventa più in questi termini, abbiamo diversi strati di coscienza, lo sai Francesca”

Lo sapevo certo, è più complesso. Ma anche un po’ inutile, come quando ti dicono che l’Universo è in continua espansione. Ok. Ma – continuo a abiettare – se tutto ciò che è, esiste in virtù dell’energia creatrice d’Amore, allora mi spiace miei guru, ma il problema della felicità umana resta.

Il Buddhismo più profondo invita in realtà a entrare in uno stato di non-mente, separato da passato e futuro, concentrato solo nel presente “mente vuota e cuore pieno” e li’ che si trova la felicità. Vero. Ma anche qui, ammettiamolo, la felicità su questa Terra si nutre di proiezioni sul divenire, progettualità. Come separare i sogni dalla nozione stessa di futuro?  

 

 

E allora? Allora, non si danno risposte in un blog, io mi limito a suggerire esplorazioni. E mentre scrivo, mi perdo in altre congetture, letterarie questa volta, penso a quella frase di Amos Oz in “Tocca l’acqua, tocca il vento”: “Cose sottili e sorprendenti succederanno presto” Ecco, sì, questa potrebbe essere una delle mie definizioni di felicità.

IL CAMMINO DI VITA DI CIASCUNO DI NOI

Qualcuno forse ricorderà il titolo di uno dei più bei libri di Bruce Chatwin “Che ci faccio qui?”. Sul filo delle rimembranze, ho seguito quel grido spontaneo e nitido fino all’approdo di una piccola conclusione: forse ogni romanzo in definitiva, in ogni tempo e in ogni parte del mondo, pone lo stesso interrogativo.

Al di là di tutti i temi trattati nella trama del mio “Il problema del mese di aprile”Il Problema del Mese di Aprile (Nuova Edizione 2019) da poco riedito con Amazon, in fondo la questione che già ponevo quindici anni fa era propria questa: “Qual è il nostro percorso?” e soprattutto “Cosa siamo chiamati a fare per allinearci a questo cammino?”

Jacky, la protagonista del mio romanzo, giornalista-scrittrice inglese, ha un’idea precisa del tipo di sacrifici che deve compiere per essere una buona madre, una madre perfetta che all’occasione fa anche da padre al suo bambino (perchè il padre vero è tornato nella nativa Spagna con una nuova compagna). Jacky diventa la casa di suo figlio in una Venezia meravigliosa, a misura di bambino. Pensa che scrivere un libro le basterà per viaggiare da ferma, pensa che sarà felice perchè William, suo figlio, sarà felice. E invece una serie di imprevisti banali la incanalano in vicissitudini che la porteranno a interrogarsi sull’essenza della propria vita.

“Era davvero questa la mia strada?” Quanti di noi se lo sono chiesto, giunti a una certa maturità? Come sarebbe stato se…”
C’è una parte di noi che crescendo ci diventa sempre meno sconosciuta, che si esprime attraverso il corpo e i suoi malesseri, i sogni e i voli della mente. Questa parte – la nostra anima per chi ci crede – rivendica ed esige che amiamo e rispettiamo noi stessi prima di poter amare il nostro prossimo, nostro figlio, nostra madre, nostro padre, nostro marito, nostra moglie. Dice il Buddha nel Samyuita Nikaya “Nell’attimo in cui capite quanto sia importante amare voi stessi, smettete di far soffrire gli altri”. Ho incontrato molte persone “illuminate” in giro per il mondo e mi ha sempre colpito molto il fatto che tutti individuassero nell’amore per se stessi, e poi per gli altri, gli animali, le piante, i minerali, l’Universo, il vero scopo della vita.

Per se stessi, appunto. Sembra facile – ho sempre obiettato – non lo è affatto. Perchè ovvio non si tratta di egoismo, per amarsi sono necessarie comprensione e consapevolezza: tutto ciò che alla protagonista del mio romanzo fa difetto, troppo occupata a piegare la propria natura curiosa e nomade, a sedare i moti dell’anima, a negarsi il diritto alle proprie aspirazioni. Il risultato è un sacrificio poco utile, un regalo d’amore monco, privo di autentica gioia perchè la volontà di amare non basta, non è ancora amore.

C’è un famoso monaco vietnamita che vive in Francia Thich Nhat Hanh che ha toccato forse il punto fondamentale di tutta la faccenda “Conoscere se stessi – dice – è la principale pratica d’amore”
La Jacky del mio romanzo finirà con l’imparare la lezione a duro prezzo, scontrandosi con le proprie illusioni. Noi forse possiamo abbreviarci il cammino, “albergando in noi stessi” al di là d’ogni dolore e paura, osservandoci e accettandoci per ciò che siamo, perchè in questo nostro modo d’essere risiede la traccia del nostro personale itinerario di vita.

AL ROTARY CLUB PER PARLARE D’AMBIENTE E INTELLIGENZA DELLE PIANTE

Si parla molto d’impegno ecologico in questo periodo, lo constato continuamente quando presento il mio libro “Cosa fanno le mie piante quando non ci sono”.
Il 18 Marzo scorso ho avuto l’opportunità di farlo al Rotary Club di Pordenone, (che ringrazio per l’accoglienza squisita) un appuntamento cui tenevo molto per l’affetto che mi lega alla mia città d’origine e per i ricordi cari legati all’infanzia, ai mei genitori, alle scuole, agli amici. In questa occasione ho potuto notare come i cinquantenni e oltre si riavvicinino alla Natura, riappropriandosi al contempo del proprio corpo, praticando sport che li portano a fruire dell’Ambiente in territorio friulano-veneto e all’estero, come forse mai prima nella loro vita. Questo li conduce alla consapevolezza nuova e autentica dell’urgenza di preservare un Pianeta che mostra visibili segni di cambiamento e sofferenza.

 

Anche i giovani, sulla scia della piccola Greta tanto alla ribalta sui media, incominciano – pare – ad appassionarsi alla causa e a scendere in piazza. Ma in che modo?

 

Non posso evitare d’esprimere un certo scetticismo dinanzi all’ignoranza che spesso constato in tema d’ecologia. Alcuni ragazzi intervistati durante una delle ultime manifestazioni a Roma, citavano addirittura lo SPREAD come concausa dei cambiamenti climatici; sul buco dell’ozono avevano idee vaghe, ripetevano slogan brevi e superficiali, criticando – a giusto titolo, certo – le scelte dei governi.

Resto dell’idea che il cambiamento in tutti i campi sia possibile solo cominciando da se stessi e dalla conoscenza. Non si può parlare d’ambiente senza capire la complessità del tema, l’intricato legame fra le decisioni e le azioni, insomma non si può essere utilmente impegnati in questo campo senza approfondire i meccanismi che reggono l’intero ciclo naturale della Terra.

Capire che il pianeta si comporta come un immenso circuito elettrico, che il mondo vegetale fin dalle origini ha saputo creare un modello di società collettiva in cui ogni essere vivente ha una sua precisa collocazione e funzione significa incominciare a percepire la vastità del problema. Ottimizzare le risorse, evitare gli sprechi, stabilire alleanze e solidarietà proprio come fanno le piante che non si sacrificano beninteso – non s’immolano – ma calcolano l’aiuto che possono offrire alle loro simili e pretendono il rispetto d’accordi di reciproca collaborazione fra loro e con gli animali, può essere il vero modello di vita da cui partire per trasformare, senza sconvolgerla, l’esistenza dell’uomo sulla terra.

Non si tratta di tornare al medioevo – ricordate la folle proposta di Grillo, tempo fa, di rinunciare all’uso degli assorbenti igienici, lavandoci di volta in volta una protezione in cotone? Lo facesse LUI – né di tornare ad attingere l’acqua nei pozzi, ma di usare la tecnologia per trovare soluzioni ecocompatibili, di dirigere l’economia – che DEVE generare profitti – sfruttando le nuove esigenze ecologiche.

Oltre a manifestare per le strade dunque, abituamoci a osservare piante, alberi e coltivazioni, a riflettere sui nostri comportamenti quotidiani, ad approfondire l’effetto domino di qualunque decisione assunta, anche della più virtuosa. Perchè una cosa é certa: non é più tempo di atteggiamenti eco-modaioli, é tempo di salvarci o meglio di salvare il salvabile per le prossime generazioni.

BIBLIOTECA LA VIGNA 21 NOV. VICENZA: L’AMBIENTALISMO DEL CUORE E DELLA CONOSCENZA

È stato un bell’incontro quello organizzato dalla Biblioteca La Vigna di Vicenza, importante centro di riferimento mondiale per le ricerche ampelografiche (dal greco antico ampelòs= Vite) e di studio dell’agricoltura, l’occasione per me, non soltanto di presentare il mio romanzo “Cosa fanno le mie piante quando non ci sono” ma anche d’incontrare lettori aperti alle più ampie visioni del mondo della Natura.

Ha rinfrancato le mie speranze infatti il constatare, una volta di più, la straordinaria vivezza di un fermento nuovo nel campo dell’ambientalismo: la consapevolezza della necessità d’imparare chi sono questi straordinari esseri viventi che chiamiamo piante e come da 500 milioni d’anni hanno saputo resistere ed evolversi sul nostro pianeta. 

Nella settimana in cui gli Organismi delle Nazioni Unite rinnovavano agli Stati l’appello a ridurre le emissioni di gas inquinanti, lanciando l’allarme di un effetto serra sempre più fuori controllo;

nell’anno in cui la Nasa ha ufficialmente rivelato che la risonanza Schumann (il cosiddetto battito interno della Terra) è drammaticaticamente aumentata fino a provocare una prima riduzione del campo magnetico terrestre, rendendoci fra l’altro anche molto più vulnerabili alle radiazioni solari;

nel mese in cui un tornado più consono al Centro-Est degli Stati Uniti che all’altopiano di Asiago, falciava decine di migliaia di abeti rossi, mi sono ritrovata a parlare d’intelligenza delle piante, scoperte scientifiche, soluzioni legate alla biodiversità e soprattutto della possibilità concreta anche per noi, di comunicare con loro e vivere meglio.

Poteva sembrare fuori tema, raccontare una storia romanzata in cui la protagonista dà un nome alle proprie piante, condivide con loro i momenti felici e difficili della sua vita, e invece il pubblico ha seguito, consapevole che un nuovo modo d’abbracciare il nostro impegno “verde” passa anche di qui, dalla loro piena integrazione nel nostro quotidiano. Perché conoscere come le piante comunichino fra loro in modalità simili al nostro Internet, sapere come da millenni trovino soluzioni naturali e formulino alleanze di mutuo soccorso per ovviare ai pericoli più diversi, significa davvero fare qualcosa per salvare il nostro mondo dalla catastrofe.

Non si tratta di scatenare rivoluzioni cruente o di tornare all’età della pietra, ma piuttosto di restituire alla terra impoverita da decenni di sfruttamento, pesticidi, ormoni, la sua naturale ricchezza (nel suolo è custodita l’80% della biomassa) riattivando l’antico equilibrio vitale, fatto di repellenti e anticrittogamici naturali, cicli di crescita compatibili con le necessità della pianta, biodiversità.

È un cammino lungo. Certi errori, commessi fin dagli anni ’60 hanno avuto conseguenze in parte irreversibili, ma molto si può ancora fare. La nuova militanza ambientalista, però, dev’essere consapevole, di buon senso e costante nel tempo. A nulla serve l’impegno di qualche mese per la salvaguardia di questo o quell’animale, se non abbiamo acquisito sane abitudini di vita nel modo in cui facciamo la spesa, ci occupiamo dei nostri rifiuti, accudiamo gli alberi delle nostre città e le piante nelle nostre case,  nella maniera in cui nutriamo noi stessi e i nostri figli.

Il buon senso passa attraverso la conoscenza e il cuore. L’umiltà di capire che la salvezza è possibile soltanto grazie all’osservazione di come si comportano loro, le piante, e all’apprendimento degli insegnamenti che da sempre silenziosamente sussurrano all’uomo.      

 

AMARE COMPLICATO: NE VALE LA PENA?

Mi concedo un piccolo spazio più personale in questo blog, ispirata da una mail di un’amica lettrice (quanti lo desiderino possono sempre scrivermi a fsz@francescazucchiatti.com ), che avendo letto “Cosa fanno le mie piante quando non ci sono” si è molto riconosciuta, a suo dire, nel personaggio della protagonista Anne, inciampata in un amore complicato per un pittore: l’affascinante Julien.

Premetto a G. la mia assoluta convinzione che nessun incontro nella vita sia casuale e quindi inutile. Ogni persona sulla nostra strada rappresenta una tappa del nostro percorso, indipendentemente dai tempi e dalla forma in cui questo contatto avviene. La mappa della nostra personale geografia è in qualche modo prestabilita, opportunamente concepita per noi.

Tuttavia, quando c’è di mezzo l’amore la faccenda si complica. L’impatto è serio, sublime, dirompente, tragico, contraddittorio, e destinato a trasformarci per sempre. La personalità dell’artista poi, è nota per essere multiforme, instabile, fluttuante. Occupandomi d’arte da molti anni, come giornalista e curatrice di Mostre, posso dire che non si tratta di un cliché. La sensibilità, la capacità percettiva extra-ordinaria dell’artista hanno il loro risvolto amaro nell’affinata lamina di malinconia che in genere lo persegue nella vita. Il dubbio, la ricerca costante di stimoli e la necessità di rispondere à se davanti a sé, rendono il percorso d’amore complesso e difficile.

Il Julien del mio romanzo è perennemente in preda a un gran traffico di pensieri. Per lui, come scrisse Fromm “la felicità è uno stato d’intensa attività interiore”. Nella continua aspirazione ad una vita diversa, trascina Anne in una corsa infinita fra i sogni. Ma cio’ paradossalmente implica anche un sacrificio della vitalità, come se talvolta la sua personalità si ritrovasse murata in una perenne attesa di qualcuno o qualcosa capace di rianimarlo e permettergli di trovare un suo centro.

In questo continuo esplodere e implodere di sé, Julien dà segni sconnessi e disordinati d’amore e di distacco, di passione e d’immaturità. Per Anne sono lancinanti ferite e picchi d’estasi. E presto si rende conto che la sostanza del loro amore è una materia crollante, terreno friabile sotto ai piedi. Che fare?

Da figlia di poeta, appassionata di letteratura, Anne non si fa troppe illusioni sulla destinazione di quel rapporto, ma decide di viverlo. “Occorre fare un salto nell’oggettività – sembra suggerile Simone de Beauvoiruscire dall’avvolgimento di sé in sé”. La fatica di quella strana vita con lui verrà ricompensata dai momenti perfetti. Fra gli uni e gli altri, infiniti crepacci.

Ma non basta, il destino, quello Grande, l’aspetta all’incrocio, più improbabile che mai e magico, nel suo unico, potente insieme.

Che dirti G. ? Ne valeva la pena? Ne vale la pena? Qualcuno un giorno mi disse che i veri amori hanno sempre una grande lacuna. Allora forse non resta che amare l’imperfezione e scambiare le cicatrici per ricordi felici.