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PERCHE’ NIENTE POTRA’ MAI IMPEDIRCI DI VIAGGIARE

Come tanti, avendo tra l’altro famiglia all’estero, sto tentando di capire quando potremo riprendere i viaggi a medio e lungo raggio. È tutto collegato all’evolversi della pandemia naturalmente, ma – mi chiedo – in futuro, i governi, potranno davvero impedirci di spostarci?

Non mi riferisco alle esigenze di lavoro o alle tragedie di popoli interi, penso al nostro modo di vivere più profondo, al bisogno intimo di libertà di ciascuno di noi, alla nostra percezione, consapevoli o meno, d’essere in transito, sempre, nel breve o lungo arco dell’esistenza. L’essere umano è nato nomade, cacciatore-raccoglitore.

La prendo da lontano – qualcuno dirà – ma non poi così tanto. Il camminare nel mondo è parte del nostro DNA, integrato nella struttura cerebrale primitiva dell’uomo (“La mente non può separarsi dal viaggio” dice bene Pat Conroy).

C’è chi, come Jacques Attali nell’”Uomo nomade“ teorizza addirittura che la stanzialità non sia che una breve parentesi della storia umana. Se ha permesso egemonie, sfruttamento di risorse e creazione d’imperi, questi hanno finito sempre per non durare e implodere. Per non parlare del fatto che il nomadismo – lo si dimentica spesso – è sempre stato la forza innovatrice del mondo, l’origine delle grandi scoperte, una fondamentale forma d’economia e veicolo dei più grandi passi avanti dell’uomo.

Da ex insegnante di lingue poi, non posso trascurare il valore imprescindibile del linguaggio nello sviluppo cognitivo. La cultura poliglotta è di fatto un esercizio costante di nomadismo. Un nomadismo da fermi – mi piace ricordare – perché basta entrare nel brodo culturale di un’altra lingua, per indossare nuovi occhiali e vedere il mondo diverso, per fondersi “nell’altrove” assorbendone contenuti, abitudini, apprendimenti. Chi ha provato lo sa, persino quando amiamo in un’altra lingua, è un altro film!

Sarebbe radicato insomma, quell’horreur du domicile, citato da Bruce Chatwin in “Anatomia dell’irrequietezza” rubato a sua volta a un verso di Baudealaire (i nomadi sono spesso un po’ furfanti) poiché nel camminare, portandosi appresso più o meno cose e soprattutto il bagaglio di noi stessi, troviamo la strada dei nostri perché più profondi e nascosti.

Anche se il nomadismo per la maggior parte di noi si è evoluto in qualcosa di nuovo, di mordi-e-fuggi (purtroppo spesso superficiale) esiste ancora, e serve, serve, se accettiamo di diventare viaggiatori e renderci meno ciechi, permettendo alle esperienze di fare e disfare l’inventario delle nostre certezze. Soltanto se ci spostiamo, possiamo comprendere cosa ci appartiene e cosa no, cosa amiamo e cosa ci ama, come proseguire, se proseguire…

“Viaggio per viaggiare” diceva Robert Louis Stevenson, uno che se ne intendeva, e sono d’accordo con lui. Poco importa quanto lontano, l’essenziale sta nell’esplorare. Come se, davvero, riscoprissimo che quella è la nostra vera ragione d’essere, e il viaggio permettesse, sempre, a chiunque, di ristabilire l’armonia originale dell’universo, là dove siamo sempre stati liberi d’esistere nella semplicità, nella molteplicità, senza limiti.

IL BRUTTO VIZIO DI FARCI PAURA

Amo viaggiare. Anzi, di più. Direi che per me è una necessità vitale, un tesoretto che accumulo nel conto a mio nome presso la Banca dell’Esperienza. Alla fine sarò ricca e vivere avrà avuto un senso. Il termine “vacanza” ai miei occhi è sempre stata un abominio “vacante da chi? Da cosa?” Non sono mai tanto presente e ancorata alla vita come quando viaggio.

Le mura della cittadella di Gerusalemme

Insomma lo farei comunque… andrei, in ogni caso. Tuttavia non posso esimermi dal fare una riflessione a beneficio di quanti talvolta esitano a partire.
Sono appena rientrata da un soggiorno a Gerusalemme con mia figlia. “Gerusalemme? Che idea?” mi dicevano prima di partire “Sei sicura?” “Ma voi due da sole?”.

Ebrei in preghiera al Muro del Pianto

Non sono un’ingenua naturalmente. Ci sono periodi in cui in questo Paese, come in altri, ci vuole cautela. Da un giorno all’altro potrei essere smentita da una brutta notizia. E quando si parte non lo si fa mai da sprovveduti! D’altronde, tragedie d’ogni tipo si susseguono ovunque nel mondo da millenni e talvolta il nostro personale destino può incrociarsi con sventure più grandi.

Tuttavia, tengo qui a sottolineare come l’atmosfera nella città e in Palestina fosse tutt’altro che tesa, ostile, stressante, i controlli per accedere ai luoghi santi di tutte le religioni assolutamente ragionevoli e nella cordialità; al Check point per entrare in territorio Palestinese, a bordo di un semplice taxi, non ci hanno nemmeno chiesto i passaporti. Un caso fortunato? Può darsi. Ma non è la prima volta che ciò mi accade: nel Chiapas messicano, in Mauritania, nel sud del Marocco… ho riscontrato spesso come la gente, i luoghi fossero più accoglienti e più pacifici di quanto giornali e televisioni prospettassero.            

Il Muro di separazione costruito da Israele in Palestina con i murales di Banksy

Damascus Gate Gerusalemme

Si direbbe che qualcuno voglia deliberatamente mantenere alto nel mondo il tasso di paura, di diffidenza, di stress. Un senso di pericolo diffuso e costante aumenta e giustifica il potere dei Media, mantiene e approfondisce gli scontri culturali e politici fra i popoli. E se ognuno sta a casa sua è meglio, lo possiamo intossicare con le informazioni che preferiamo, lo possiamo spaventare con foto sensazionali (poco importa se spesso costruite come in un set cinematografico!) lo possiamo convincere che il suo modo di vedere è l’unico possibile e che deve vivere nell’inquietudine, nella convinzione che “fuori” ci sono sempre i lupi. 

Io continuo a credere invece che conoscere Paesi, parlare con la gente che li vive per davvero, permetta di farci un’idea meno schematica di come stanno le cose. Un’idea certo – non ho la pretesa di capire – ma posso guardare con i miei occhi, ascoltare, imparare e… sorridere, sorridere con gratitudine a chi mi consente d’entrare a casa sua. Perchè alla fine, non è questo che bisognerebbe fare? Come recita il Maestro Ejo Takata: “Per andare avanti faccio un altro passo, nel vuoto”.