LE MIE PIANTE E IL SEGRETO PIU’ GRANDE La recensione del Prof. Giovanni Incorvati
prof. di Filosofia del Diritto alla Sapienza di Roma, docente di Bioetica Univ. di Camerino
Il nuovo romanzo di Francesca, prosecuzione del suo precedente Cosa fanno le mie piante quando non ci sono, si presenta esattamente all’altezza delle promesse. La risposta al titolo della prima opera è al fondo del titolo della seconda. La figura centrale di Anne e quelle delle sue piante (tra cui le care Giò e Maria Juana, nel frattempo “defunte”) mantengono la loro posizione nel titolo, con in più l’arrivo tra di loro di due new entry. Ma nell’espressione “le mie piante” ci sono diverse interpretazioni dell’aggettivo “mie”, tra cui occorre distinguere: piante di chi esattamente? Nell’appartamento di Parigi esse continuano tutte a convivere insieme con il lascito di Julien, l’amato artista, compagno di Anne, scomparso tragicamente un anno prima. Dipinti da lui, alle pareti ci sono evidentemente i ritratti di Anne nelle sembianze di ciascuna di loro, e sia gli uni che le altre presenziano, come “testimoni oculari” o “immaginari”, alle nuove notti di Anne, quando la memoria di Julien vorrebbe colmare quei vuoti che continuamente si riaprono in lei.
Le potenzialità di una simile assemblea in miniatura rispetto a questo senso acuto della mancanza sono anche più profonde. Sotto il profilo formale della scrittura, vi corrisponde un’invenzione originalissima. Il cosiddetto “io narrante” non appare più singolare e compatto nella sua apparente identità con l’“io narrato”, come vorrebbe un’affermata consuetudine letteraria, ma tende a identificarsi con un soggetto collettivo a cui fa da portavoce. D’altra parte, l’“io narrato” di Anne impara a conoscere il proprio “sdoppiamento” e l’esistenza di un “terzo occhio”, di un “noi” più vasto, che ha, sì, il compito di prendere con le pinze le idee e i comportamenti di Anne, ma non si limita solo a questo.
In effetti, l’identificazione è non solo con le piante di appartamento, ma anche con gli alberi del mondo: sia con alcuni di quelli tra i più comuni nel paesaggio europeo, sia con altri assai diffusi in America Latina. Ad essi. nel titolo di ciascun capitolo, si accompagnano specie diverse di sensazioni. Al termine del viaggio dentro di sé, alla fine del primo capitolo dal titolo “Sentirsi il noce”, Anne abbraccia questo albero in segno di congedo. Ma, al suo ritorno dal viaggio nel Messico, dopo un lungo trascorrere dal frassino al bambù, al banano e alla palma, l’assemblea narrante la mette di fronte, come recita il titolo dell’ultimo capitolo, al “sentirsi la quercia” e a qualcosa di molto nuovo, al “sogno di costruire”, di abbracciare in grande.
Il climax è raggiunto esattamente al centro del viaggio in Messico e del romanzo stesso, con l’innesto, all’interno del racconto di quel paese e delle sue meraviglie, di un pezzo di realismo documentario à la Flaubert. È il reportage fedele, in parte già apparso sul blog dell’autrice, di un incontro avuto effettivamente da lei diversi mesi prima, che provoca un fulminante corto circuito con l’io narrante e con quello di Anne. Il racconto della visita a Gudelia, la curandera, esperta professionista del prendersi cura di sé e del mondo esterno attraverso antichissime strutture che li interconnettono, annulla immediatamente ogni distanza. All’improvviso i diversi segreti disseminati qua e là sul percorso del romanzo sembrano riunirsi in un punto in cui credi di riconoscere il segreto più grande. La scossa della scoperta ti raggiunge immediata e ti lascia lì, “strabiliato”.
Il flusso di corrente alternata si ristabilirà subito dopo, al rinnovarsi delle esperienze sentimentali di Anne, il cui quadro complessivo, secondo la diagnosi di Gudelia, “era un disastro”. L’abbraccio che conclude l’incontro con lei, con la prognosi dell’importanza crescente della segunda vista, del terzo occhio, avrà ricadute definitive anche in questo campo. La fugace figura messicana di Arnulfo, accompagnatore che è una sorta di “cavaliere inesistente”, farà eco alle persistenti, ma caduche controfigure parigine, quella di Jean, aduso a stringerla con mani “di ghiaccio”, e quella di Marc, evanescente manager in ars amatoria, di cui è solo un praticone. Questo preteso Apollo, sempre pronto a “passare” da Dafne” per strimpellare anche lui qualcosa sulle sue corde, e sempre “senza domande, senza risposte”, si rivela totalmente incapace di recarsela in braccio con vero desiderio. Lei infine si libera, si libra. Ha diritto al futuro.
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