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COSA MANCA NEL MONDO? LA FIDUCIA

La fiducia è come l’amore – mi disse un tipo strano, in Mauritania, decenni fa – se non sai riconoscerla in te stesso, come fai a sperimentarla con gli altri? E’ come l’amore, se non lo hai mai provato, non sai darlo né riceverlo… capisci? Non te ne accorgi neppure che è entrato nella tua vita”

In questi giorni trafelati, mi è venuto in mente come un abbraccio, il vecchio Dihao. Chissà da quanto tempo non è più di questo mondo…Eppure ho pensato alla nostra conversazione, seduti sulla sabbia con un té in mano. Perché, come tutti, seguo le notizie e non credo più a niente. Nulla di cio’ che ascolto è stabile, nella mia mente.

I dati del Covid, in Italia, in Europa, le previsioni, i vaccini, le cure, quando finirà, dove, prima in Europa o in America Latina? Poi sento gli amici all’estero, altre versioni, quelle vissute da ciascuno…mi parlano in lingue diverse e muta anche la sostanza del messaggio, il pathos. L’economia non resisterà e giù ad argomentare, poi arriva l’ottimista, quello che ha investito nella green economy e speri abbia ragione. Ma forse non ci credi, perché i dati sull’inquinamento sono impressionanti e i governi hanno altro a cui pensare…Figuriamoci, se avevano altro a cui pensare prima, quando era il cancro a farci paura e la siccità, e l’invasione di cavallette e la xylella e i ghiacci che fondono !!! Poi ci sono le elezioni in USA, la conta dei voti, le accuse. Comunque vada, si continuerà a dubitare del vincitore e del vinto. E i poteri forti? La grande finanza…Il terrorismo islamico…certo, sempre in agguato, ma meno in pole position nelle nostre paure. Avete notato? Una paura che sgomita via l’altra. E noi, nel marasma, che dubitiamo di tutto.

Continueremo a dubitare, ormai non facciamo altro, anche a livello personale. Nei miei seminari (quelli che ho dovuto annullare SIGH! Pardon, rimandare!) faccio lavorare molto sulla FIDUCIA. E’ lei la grande assente delle nostre vite, è lei l’anello mancante nei nostri progetti, è lei la ”smorza-entusiasmo” dei nostri slanci, è lei che vacilla nelle relazioni personali, è lei che, mutando in fretta come un virus, ci fa fare quel costante passo indietro che la vita punisce, alla fine, come punisce i pavidi e gli ingrati.

Certo, si dirà, è sempre più difficile avere stima di chi ci governa, di chi incontriamo per lavoro e nella vita personale. Quante maschere ci sorridono tutti i giorni…Povertà culturale, furbizia, invidia, falsità minano i rapporti umani e noi, per preservarci, non possiamo che diffidare.

Ma, attenzione, siamo sicuri che sia la giusta soluzione? La perdita puo’ essere immensamente più grande della delusione per una fiducia mal riposta, se essa implica la rinuncia ai nostri sogni. E dal momento che il continuo flusso d’informazioni su cose e persone non puo’ salvarci, anzi, piuttosto, aggrava la nostra percezione fasulla della realtà, non resta che affidarci al vecchio Socrate: Conosci te stesso.

Soltanto quello che Gurdjieff definiva “il riconoscimento attivo della nostra coscienza” nella piena assunzione di cio’ che siamo, puo’ proteggerci dalla tentazione di non avere più fiducia. Accedere alla nostra verità più profonda, all’esistenza che comprendiamo, capire che solo nel perderci possiamo trovarci, che partecipiamo e diamo il nostro contributo comunque, non puo’ che farci salvaguardare la fiducia nella vita, nelle sue forze invisibili e in noi stessi.

Puntare ad una grandezza nuova. Ciascuno, nel suo piccolo, potrebbe davvero salvare il mondo perchè come dice bene Aldo Busi, riecheggiando un vecchio detto di Montaigne sulla bontà: “Non si ha fiducia negli altri perché essi se la meritano, ma perché merita di averla colui che la prova”
E allora partiamo da qui, da noi, per fare un lungo viaggio con gli altri, che comunque ci porterà al punto di partenza: noi stessi.

Mi fido di me?

Sono già al sicuro.

PS. Un abbraccio speciale a tutte/i le/gli iscritti al seminario di novembre a Roma. Grazie. Non è che un arrivederci!  

QUANDO VA TUTTO MALE…

Quando va tutto male, faccio un passo in più e mi vivo la tristezza. Sì, per quanto assurdo, me la vivo, l’assaporo persino, vado fino in fondo e vuoto il barile. Mi ubriaco di lei.

Ho fatto tutto ciò che era possibile, spinto l’accelleratore, sfoderato il coraggio come una spada, gettato via i pesi non necessari, e alleggerito i pensieri – li ho colorati quand’erano grigi – poi ho ascoltato, compreso, ammorbidito, detto e ridetto, speso, lavorato sodo, scritto e riscritto, salito e sceso, percorso, fatto e disfatto. E sorriso, tanto! Ho tanto sorriso…

Ma non è bastato. Per ora. È andata male lo stesso. Succede, vero? Molto più spesso di quanto dicano i buoni predicatori.

E allora è giusto, per un giorno, una sera, un’ora, mollare gli ormeggi, andare alla deriva, godersi il silenzio e lo strappo dell’àncora, così, nel mero galleggiamento. Ci sarà tempo, poi, per reagire. Adesso vivo nella desolazione, è un mio diritto, lo chiedono il mio corpo e la mia mente vorace, il respiro affaticato, le spalle pesanti. Silenzio! Abbandono. Capogiro delizioso. Letto sfatto.

Quando va tutto male, mi lascio adagiare sul fondo del mare, riemergerò per forza, prima o poi. E vuoi vedere che qualcosa s’avvista alla fine, un pesce che salta, il sole che spunta?! Allora ricomincerò a battermi, chiaro! M’inventerò una corazza, raccoglierò i capelli, cavalcherò un’idea. Il vuoto si riempie sempre, i colori s’inventano da soli, l’erba ricresce anche sui sassi.

Succederà, e sarà bello pensare, che qualcuno mi ha dato una mano, perché io non stavo facendo nulla. Per una volta, non dovevo far nulla. Solo attendere la forza della corrente. Da qualche parte, dove è meglio per me.

PERCHE’ ABBIAMO BISOGNO DI UN’ECOLOGIA COMPLETAMENTE NUOVA

C’è chi protesterà e porterà esempi virtuosi. Ma la verità è che la Terra è al collasso.

Ci sono inquinamenti definitivi di fiumi, aree del mondo invivibili; abbiamo creato un intero, nuovo continente di plastica; bruciamo foreste che non hanno il tempo di ricrescere; sfruttiamo risorse minerarie a un ritmo tale che le stiamo esaurendo; lo spreco dell’acqua non accenna a diminuire.

Eppure il messaggio ecologico non è recente. Movimenti di tutti i tipi sono nati già dagli anni settanta, Il Partito Verde d’Europa o Unione dei Partiti verdi europei è stato fondato nel 2004.

Se una sorta di disneyana sensibilizzazione è stata sparsa nel mondo, poco o nulla è stato fatto nella concretezza. A fronte di una tecnologia ormai da anni in grado di sostituire la plastica con similprodotti naturali e innocui, di riciclare l’acqua, di desalinizzare il mare dove necessario, di fornire energia pulita, di creare barriere vegetali alla progressiva desertificazione, al livello globale non si è cambiato senso di marcia. A riprova, oggi stiamo coprendo la Terra di mascherine non biodegradabili per salvarci la pellaccia dal Covid.

Allora, mi chiedo, cosa non ha funzionato? La risposta che constato nei miei seminari è sempre la stessa: il messaggio ecologico, contaminato dalla politica (perchè non si tratta d’essere di destra o di sinistra) non ha integrato la vera essenza del discorso, il segreto della vita.

Il 70% del nostro DNA è lo stesso di piante e animali, bruciare un bosco dovrebbe farci l’effetto di danneggiarci un rene. La sacralità della vita è la stessa, la sorgente della vita è la medesima. La Terra Madre si comporta come un organismo vivente costituito da materia, energia e spirito, le stesse componenti del corpo umano. La vita di una cellula, di qualsiasi cellula, è compromessa dall’inquinamento e tutte le forme di vita sono collegate. Il nostro sistema immunitario sta diminuendo d’efficacia. Inseguiamo vaccini, perché conosciamo la nostra debolezza, perché i nostri bambini non crescono più a contatto con la Natura, perché abbiamo perso sapienze antiche che trovavano rimedi nelle piante.

Qualcosa nella coscienza collettiva si sta smuovendo. È tardi, ma molto si può ancora salvare per almeno una buona fetta di future generazioni. Cosa aspettiamo? Ogni cambiamento comincia da se stessi, nei comportamenti individuali.

Irrisorio? No, l’effetto moltiplicatore è la chiave del cambiamento. Come dico sempre, se ognuno tenesse una piccola pianta sul balcone, domani, l’Italia, avrebbe un polmone verde in più, 60 milioni di piante nuove a filtrare l’aria che respiriamo.

STATI DI COSCIENZA MODIFICATA: FORSE NON LO SAI MA LI HAI VISSUTI

Senza saperlo, li abbiamo vissuti tutti: in situazioni di pericolo estremo e di grande stress, le funzioni cerebrali si modificano.

La Neuroscienza ha monitorato come in queste condizioni, il naturale dominio dell’emisfero sinistro passi la palla al destro. O più esattamente, una parte del nostro cervello continua a lavorare la coscienza ordinaria e l’altra lavora come coscienza amplificata, capace d’attingere a una quantità maggiore d’informazioni.

La prima conseguenza di tutto ciò è la percezione diversa del tempo.

Il chirurgo che sta per operare vede già il sangue prima ancora d’incidere. Per la “legge delle catastrofi evitate”, mentre voliamo per aria, nel bel mezzo di un incidente, ad esempio, anticipiamo gli eventi al punto di vederci agire a rallentatore, modificando di fatto la percezione della realtà e del tempo in cui tutto avviene. In certi casi possiamo esercitare un controllo deliberato sulle attività in esecuzione al momento o siamo in grado di comunicare il nostro mentale ad altri.

Lo psicologo Hilgard sostiene che esistono nel nostro cervello una molteplicità di sistemi di controllo gerarchizzati e fluidi, coordinati dall’Ego. Nella transizione da un sistema all’altro si verifica uno stato di trans spontaneo e inconsapevole in cui viene ridotto il dominio dell’Ego e prevalgono percezioni più nascoste.
Ma cio’ non spiega tutto.

Un gruppo di scienziati canadesi qualche anno fa, monitoro’ il cervello di una nota shamana francese in stato di trans autoindotto, dimostrando che è possibile, anche senza l’uso di sostanze psicoattive o in particolari stati fisici alterati subiti (come il coma, il sonno profondo) raggiungere uno stato di coscienza modificata volontariamente. A livello neurologico fu chiaro che un cervello sano puo’ riprodurre stati apparentemente patologici e tornare dall’esplorazione perfettamente normale. La shamana entrò per ore in uno stato di super-coscienza e quando tornò in sé, era convinta fossero passati pochi minuti. Si potrebbe affermare che ciò avviene perché in trans si accede alla coscienza allo stato primario, la coscienza originaria, al di là delle stratificazioni operate dal principio di realtà, legato a necessità biologiche e culturali. La shamana era “tornata” con un flusso amplificato d’informazioni, la percezione di averle ricevute in pochissimo tempo, e la convinzione che modificando il comportamento del nostro cervello possiamo superare il modello attuale della realtà e coglierne un altro.

Il mistero dunque resta: cos’è il tempo? Esiste davvero un tempo quantico? Dovremmo abituarci a parlarne come di un luogo, una dimensione non disgiunta di tempo/spazio?

Di certo qualcosa sta cambiando, l’accesso a tante verità sta diventando possibile. A tutti. A tutti coloro che sono disposti ad accogliere l’inimmaginabile.

PERCHE’ NIENTE POTRA’ MAI IMPEDIRCI DI VIAGGIARE

Come tanti, avendo tra l’altro famiglia all’estero, sto tentando di capire quando potremo riprendere i viaggi a medio e lungo raggio. È tutto collegato all’evolversi della pandemia naturalmente, ma – mi chiedo – in futuro, i governi, potranno davvero impedirci di spostarci?

Non mi riferisco alle esigenze di lavoro o alle tragedie di popoli interi, penso al nostro modo di vivere più profondo, al bisogno intimo di libertà di ciascuno di noi, alla nostra percezione, consapevoli o meno, d’essere in transito, sempre, nel breve o lungo arco dell’esistenza. L’essere umano è nato nomade, cacciatore-raccoglitore.

La prendo da lontano – qualcuno dirà – ma non poi così tanto. Il camminare nel mondo è parte del nostro DNA, integrato nella struttura cerebrale primitiva dell’uomo (“La mente non può separarsi dal viaggio” dice bene Pat Conroy).

C’è chi, come Jacques Attali nell’”Uomo nomade“ teorizza addirittura che la stanzialità non sia che una breve parentesi della storia umana. Se ha permesso egemonie, sfruttamento di risorse e creazione d’imperi, questi hanno finito sempre per non durare e implodere. Per non parlare del fatto che il nomadismo – lo si dimentica spesso – è sempre stato la forza innovatrice del mondo, l’origine delle grandi scoperte, una fondamentale forma d’economia e veicolo dei più grandi passi avanti dell’uomo.

Da ex insegnante di lingue poi, non posso trascurare il valore imprescindibile del linguaggio nello sviluppo cognitivo. La cultura poliglotta è di fatto un esercizio costante di nomadismo. Un nomadismo da fermi – mi piace ricordare – perché basta entrare nel brodo culturale di un’altra lingua, per indossare nuovi occhiali e vedere il mondo diverso, per fondersi “nell’altrove” assorbendone contenuti, abitudini, apprendimenti. Chi ha provato lo sa, persino quando amiamo in un’altra lingua, è un altro film!

Sarebbe radicato insomma, quell’horreur du domicile, citato da Bruce Chatwin in “Anatomia dell’irrequietezza” rubato a sua volta a un verso di Baudealaire (i nomadi sono spesso un po’ furfanti) poiché nel camminare, portandosi appresso più o meno cose e soprattutto il bagaglio di noi stessi, troviamo la strada dei nostri perché più profondi e nascosti.

Anche se il nomadismo per la maggior parte di noi si è evoluto in qualcosa di nuovo, di mordi-e-fuggi (purtroppo spesso superficiale) esiste ancora, e serve, serve, se accettiamo di diventare viaggiatori e renderci meno ciechi, permettendo alle esperienze di fare e disfare l’inventario delle nostre certezze. Soltanto se ci spostiamo, possiamo comprendere cosa ci appartiene e cosa no, cosa amiamo e cosa ci ama, come proseguire, se proseguire…

“Viaggio per viaggiare” diceva Robert Louis Stevenson, uno che se ne intendeva, e sono d’accordo con lui. Poco importa quanto lontano, l’essenziale sta nell’esplorare. Come se, davvero, riscoprissimo che quella è la nostra vera ragione d’essere, e il viaggio permettesse, sempre, a chiunque, di ristabilire l’armonia originale dell’universo, là dove siamo sempre stati liberi d’esistere nella semplicità, nella molteplicità, senza limiti.

IL 4 MAGGIO: AIUTO!!! CONSIGLI D’USCITA

Pare che in termini psichiatrici, le abitudini si formino in un lasso di tempo che va in media dai 27 ai 30 giorni. La quarantena trascorsa – cinquantena anzi – si è dunque agevolmente installata nella nostra vita, con tutta una serie di muffe mentali e ruggini alle giunture.
Il 4 MAGGIO ce lo siamo segnati tutti: si uscirà! Ma dove? Come?

Oltre alla confusione estrema nella gestione delle riaperture sulle quali s’agita un continuo to be fake or not to be: avverrà per regione, città, fascia d’età, tipo di servizi, di esercenti…? Boh… (dal momento che è tutto correlato e non posso comprare dei fiori ad esempio, se non hanno aperto i vivai e riavviato i trasporti per fornire i negozi, è mia personale convinzione che gli annunci servano a poco) oltre a questo, dicevo, c’è di più.

La faccenda è più complessa: come vivrà questa fase ognuno di noi, interiormente? Facile dire che sarà EUFORIA, ma è proprio cosi’?
In “Malattia come metafora” Susan Sontag mette in guardia contro i termini bellici “tipo guerra” continuamente, e non a caso, usati in questa pandemia con tutto il loro immaginario colpevolizzante (se esci a correre, contamini dei poveri Cristi etc.).

Ci è stato procurato infatti, uno shock, in parte dovuto alle reali insidie del COVIT, in parte animato da politica e media, perché venisse meno la nostra primordiale libertà d’iniziativa e reazione personali, per indurci alla lentezza e all’acriticità, all’autolimitazione insomma.

Agendo su paura e colpa si puo’ esercitare un controllo altrimenti impossibile. Lezione della storia. Cosi’ è stato ancora una volta.
Ed ora, malconci e indolenziti, ci apprestiamo ad uscire dalla gabbia. Per questo vorrei suggerire qualche piccolo consiglio, una dieta da iniziare prima del 4 Maggio?

a) Ridurre tg, info, trasmissioni su Covit, post su fb del virologo X, a una sola volta al giorno. Preferibilmente non di sera, prima di coricarsi.
b) Fare una passeggiata quotidiana, da soli, spingendosi sempre un po’ più lontano, nei limiti del consentito, o girandoci intorno, in modo da non fare sempre lo stesso itinerario.
c) Per chi fa meditazione: salutare per sempre questo tempo della nostra vita. Accoglierlo (ci ha insegnato sicuramente qualcosa) e chiuderlo. Per chi non fa meditazione: stracciare dall’agenda le pagine di quarantena, il mese di marzo e aprile dal calendario. Accantonare screzi, accadimenti (contaminati anche quelli) Sono passati. Finiti. Addio.
d) Fare progetti per i prossimi mesi, fino alla fine dell’anno. Piccoli o grandi… come se dipendesse solo da noi.

Riprenderci la nostra vita è fondamentale, prima che altri, non contenti d’averci dovuti liberare, ci iniettino altre paure – la seconda ondata del COVIT/la modificazione genetica del virus/la mancata vaccinazione antinfluenzale – e ci ricaccino in una metaforica casa esistenziale, devitalizzata come un dente – sala d’attesa di nuove sciagure – non per curare, ma per “prevenire” questa volta, magari, soltanto con un’insidiosa APP sul cellulare!

LA GUERRA SOSPESA…E LA VITTORIA POSSIBILE

Chi sta bene è fortunato. Respira e vive. Sente il sole sulla faccia, ne sente la maggiore intensità da una settimana. Gli alberi se n’erano già accorti e si sono fatti trovar pronti con foglie giovani, lucide di perla, tenerezze verdi. Siamo a casa. Qualcuno ha qualcuno vicino a sé. Rinnoviamo ricordi e abbracci virtuali. Ponti incredibili di tempo e geografia emergono dal nulla, nello sprazzo benefico di una telefonata, un messaggio, un video.

Tante persone amate… volate via come nuvole, tornano a passare davanti alla mia finestra. E mi dico, una volta di più, che il vero amore, in tutte le sue forme, non è mai perduto.

Ma la guerra è guerra. Bisogna essere forti e non guerreggiare. Notizie orribili rigano il silenzio di giornate tutte uguali, ma non possiamo batterci. Non siamo gli eroi degli ospedali, siamo un numero di una conta che ci sfugge, siamo sofferenza senza costrizioni fisiche, libera di patire e godere il sole. Non siamo abituati al dolore. Sappiamo soltanto che abbiamo avidità di luce, aria, libertà, tocco. E aspettiamo…

Come dire l’attesa?
Nostalgie invisibili di tenerezze, rammarico per quella definizione di noi appena abbozzata in certi rapporti ormai sospesi, occulte volontà di trasmissione di cose sapute e non dette, quando s’era accanto.

Forse è questa l’unica palestra di coraggio che ci rimane, il punto massimo della parabola di questa nostra personale guerra – epocale come ripetono mai vista prima– unico noviziato d’eroismo possibile. Dire tutto. Tutto ciò che va detto. A se stessi dapprima. Per non arrivare troppo tardi. Perché è così, vivere nel pericolo: la paura costante della gabbia, e non poter dire in tempo.

E quanta gioia in questi giorni si può ottenere chiudendo finalmente cerchi d’intendimento, sgomberando intere valli d’armonia, rasentando la propria sorte con un lampo chiarificatore. Far cadere le corazze, le maschere d’orgoglio, le trine lezzose delle false debolezze. Assoluzione piena per antiche parole, usarne di nuove, poche, scelte con cura. Sembrerà uno sbalzo nell’irreale tanto poco siamo abituati all’essenzialità, vedere con occhi buoni… e invece aprirà spazi vivi, germinazione di semi, gemme e fiori.

Per tutti sarà stata una grande avventura, così fuori dal ritmo meccanico della vita, così lontano dalle solite brighe e interessi. Un’intima verità di noi che s’instaura, d’ora in poi… Una bella vittoria in questa guerra sospesa.

UN NUOVO MODO DI LEGGERE AL TEMPO DEL CORONA VIRUS

So già che molti lettori, quelli veri come me che divorano anche cinque/sei libri in un mese, avranno da obiettare. Il libro è un incontro anche tattile: la grammatura della carta, l’odore, la copertina (un tempo, anche per noi scrittori era un vanto averne una rigida!) e poi la possibilità di sottolineare, scribacchiarci a latere… in un rapporto quasi intimo. Un libro ti accompagna, per un po’ diventa quasi un diario. Una cosa tua.
Poi i tempi sono cambiati.

Abbiamo cominciato a viaggiare con bagagli microscopici. Nei voli law cost, come tanti, ho elaborato tecniche da spia per evitare di metterli nella valigina che ospita già a malapena un cambio e due mutande. Misteriose tasche interne che ti fanno assomigliare all’omino Michelin, volumi incastonati sotto le ascelle mentre passi il check in, false buste duty free con rivista esplicativa di come fare una tovaglia all’uncinetto mi hanno permesso il trasporto clandestino di una piccola scorta di libri in ogni parte del mondo. Ma ora il virus… cosi’ abile da insinuarsi anche fra le pieghe di un pacco postale, sembra averci momentaneamente fregati tutti.

È per questo che ho ceduto anch’io. Ho pensato di aprirmi all’e-book, sia come fruitore che come scrittore. In un istante lo compri ed è tuo, in tablet/cellulare/computer. E per dimostrare che comprendo che non è la stessa cosa, ho voluto offrire il mio romanzo a soli 2.99 Euro !!!

Mi piace pensare che nessuno rischierà la vita per recapitarlo e riceverlo; mi piace pensare che accompagnerà le giornate tutte uguali di qualcuno in questa quarantena sempre più lunga; mi piace pensare che forse la mia storia arriverà alla persona che senza saperlo l’attende, perché come scrive Gabrielle Zevin “Bisogna incontrare le storie al momento giusto (…) Questo è vero nei libri e anche nella vita”; mi piace pensare che un racconto d’amore, di piante e Natura possa distrarre dai bollettini plumbei dei tg e trasportarci già a domani, a quando vivremo tutto di persona e ancora meglio, meglio e di più… molto di più…

Buona lettura e buona vita !

OLTRE IL DELIRIO “CORONA VIRUS” RICORDA COS’E’ LA VITA

Vorrei provare a fare una riflessione un po’ diversa sul famigerato Corona virus.
In questa settimana, l’Italia tutta, il Veneto e la Lombardia in particolare, si sono scoperti vulnerabili. La parola che fa paura è CONTAGIO.
Tutti i giorni, naturalmente, si muore per i motivi più svariati: alla fine di lunghe malattie diagnosticate, per un’influenza, un infarto improvviso o per nessun motivo apparente – consunzione, se il corpo è vecchio e stanco – o casualità di un incidente.

I media – i famosi media che dovrebbero aggiornarci su tutto! – non dicono quanto sia aumentato nel mondo il numero dei suicidi.

Fra i 15 e i 29 anni, il suicidio è la seconda causa di morte. Ogni 40 secondi sul Pianeta qualcuno si toglie la vita (800.000 persone l’anno) per non parlare del fatto che l’11% degli under 12 del mondo (verosimilmente nei Paesi più Sviluppati) assume regolarmente psicofarmaci e i casi di autolesionismo fra gli adolescenti sono in aumento. Queste sono le vittime d’infelicità della società che abbiamo costruito!

La Malaria (dati Istituto Pasteur) è la prima causa di mortalità infantile in 91 Paesi del mondo con 216 milioni di casi e 445.000 decessi nel solo 2016.

Il Colera, una costante in molti Paesi che ho personalmente vissuto – senza fare vaccino perchè pieno di effetti collaterali invasivi ed evitabile in condizioni di vita decenti! – colpisce da 3 a 5 milioni d’individui in tutto il pianeta, uccidendo una media annua di 95.000 persone.

Ma le epidemie di casa nostra sono apocalittiche! E soprattutto introducono il SOSPETTO nelle nostre privilegiatissime piccole vite. Ci ricordano che la malattia potrebbe colpire ovunque, che potremmo riceverla con un bacio della zia, prendendo il treno, incrociando la persona sbagliata in ascensore, che magari ci sta pure sulle palle salutare.

Quando ero piccola, in Friuli, conobbi la precarietà da terremoto: l’idea era che non eravamo al sicuro da nessuna parte. Avevo nove/dieci anni e curiosamente di quel periodo, ricordo momenti di bella allegria, grandi mangiate conviviali e tutto un preoccuparsi degli altri, un dare e prendere notizie. Ricordo gente antipaticissima, sempre a dieta e di cattivo umore, tirchia, competitiva e criticona, diventata improvvisamente diversa, rilassata in certo modo, finalmente sgravata dal peso di esercitare il controllo su tutto e tutti.
Ecco, spero che la brutta faccenda del Corona virus (brutta, per chi sta male, per l’economia mondiale) abbia anche alcuni effetti positivi su tutte quelle persone angosciate per nulla, ossessionate da pensieri fissi: invidie, rivalità, rancori, frustrazioni e gelosie; gente che sciupa il tempo e se lo lascia guastare da piccinerie. Spero che gli Stati del mondo, scoprendosi vulnerabili e non protetti da armi e frontiere, ritrovino il bisogno e la necessità di unirsi e cooperare.

Auspico insomma che gli esseri umani ricordino che la vita è apprendimento, esperienza di durata non garantita e che per questo essa vada vissuta pienamente e umilmente senza rimandare a domani il progetto che sognamo, l’abbraccio che non diamo per orgoglio o timidezza, il coraggio di fare il regalo che ci costa…

Oso persino pensare che il senso di precarietà e fragilità di questi giorni ci possa portare attimi di felicità da assaporare fino in fondo. Perchè l’esistenza è un mistero e, come diceva Mahatma Gandhi, “La vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a danzare sotto la pioggia”.

A VENEZIA È LA SPERANZA CHE RISCHIA DI AFFONDARE!

In questi giorni, la grande cassa di risonanza mediatica del dopo alluvione del 12 novembre, ricomposta in una sbadata partecipazione alle recenti, parziali prove del Mose, ha salutato l’esito del Referendum sull’autonomia di Venezia – peraltro ignorato e boicottato – con un’asciutta presa d’atto che le cose sono andate come matematicamente previsto: la città resta legata mani e piedi a Mestre e alla Terraferma.

Pochi – si dirà – i Veneziani “di VeneziaVenezia” che hanno votato e giù a dire che ce la cerchiamo la decadenza della nostra città! Ma ai miei cari lettori che non sanno com’è viverci e a quelli che lo sanno fin troppo bene, io dico che invece li capisco, eccome!

Abitando Venezia da decenni, pur non essendoci nata, sento profondamente il senso di sfiducia e di abbattimento dei miei concittadini.

Spossati da quindici giorni consecutivi di acqua alta durante i quali hanno pulito senza sosta dopo ogni allagamento e subìto l’ennesima ondata e ripulito – perché il tempo incalza e i turisti di Natale arrivano e il salso si radica su tutto e il suo tanfo pure – dopo le promesse, la sfilata dei politici con gli stivali, i selfie divertiti di gente che non sa neppure quali monumenti visita, i Veneziani non ne possono più, non credono più, non sanno più cosa sperare, chi ascoltare. È questo l’affondamento più pericoloso della città!

Lo svilimento che ti prende in quest’arrabattarsi delle istituzioni, del grottesco corteo dei profeti di sventura, dei cosiddetti esperti “del senno del poi”, degli stranieri con le soluzioni di altri Paesi ben lontani dalla nostra laguna, è diventato parte della vita quotidiana di calli e campielli, un chiacchiericcio lontano, sussurrato, come una nebbia che ogni tanto si dirada.
Che fare? Se non resistere, riparare i danni, vivere, aiutarsi, commuoversi ogni volta che succede…


La speranza, l’utopia, sarebbe togliere Venezia all’inerzia e all’ipocrisia tutta italiana delle soluzioni univoche e miopi, ai “soliti” con le mani in pasta, trasformandola in un luogo protetto, super partes, con uno statuto speciale, internazionale che ne faccia un gioiello e una responsabilità di tutti… ma forse, questo, lo auspicavano anche gli abitanti di Atlantide.

CHI NON VIVE VENEZIA NON SA

Ne ho sentite tante in questi giorni su Venezia, povera icona di bellezza, emblema della caducità della nostra civiltà, trofeo kitsch per coppiette internazionali, grande nave alla deriva fra le navi crociera.
Quante ne ho sentite su cosa bisognerebbe fare, cosa si sarebbe potuto fare, non si doveva fare, cosa faremo o non faremo, cosa si potrà fare…
Ma in realtà, sono pochi quelli che sanno davvero cos’è vivere Venezia,

che conoscono l’angoscia delle sirene, mentre sei a letto e conti le note per sapere se casa tua andrà sotto;
sono pochi quelli che sanno come ci si sente fieri di questa città quando, certe notti tiepide si svuota di un po’ di turisti infestanti e ritrova la classe di uno scrigno di diamanti in mezzo al mare;
sono pochi quelli che sanno cosa significa portare i bambini all’asilo e fare la spesa, andare al mercato e in ufficio, accompagnare qualcuno in ospedale, un cane dal veterinario, traslocare, trasportare le piante, fare tutto questo a piedi, camminare con la pioggia e il vento, al caldo afoso con i turisti che ti stritolano in vaporetto, tirare il trolley, scendere dai ponti con il carrozzino, pulire i pianoterra dopo l’alta marea, percorrere i sestrieri per incontrare gli amici, sfidare la nebbia d’autunno, festeggiare il Redentore, mettere un cero per proteggere la famiglia alla Madonna della Salute, bersi uno spritz fra amici a fine giornata, il tutto senza macchina, moto, bicicletta, il tutto come un tempo, a piedi, in barca, incrociando lo sguardo di chi incontri nelle calli, agli imbarcaderi, in Palazzo, sui ponti…

sono pochi quelli che sanno come, per tutto cio’ che ho appena descritto, ci si senta fratelli nell’avversità, anche se non si è mai stati amici, anche se ci si diceva a malapena buongiorno, quando arriva una brutta piena, i veneziani si rialzano tutti insieme a pulire, sistemare e riprendere la vita;
perchè sono pochi quelli sanno che non puoi semplicemente parlarne come di una qualsiasi bella città. Venezia è una tentazione, un privilegio, uno sbaglio. Venezia è la vita che non ti garantisce nulla ma ricomincia sempre e ti offre tutto, purché tu sappia avere il coraggio di crederci.

SCUSI LEI E’ FELICE?

 

In questi tempi di grandi migrazioni per una vita migliore, di crisi economica e ambientale, diffusa spiritualità o pseudo-spiritualità, intelligenza artificiale e grandi tuffi in mari di oblio, come la droga o l’alcool, mi sembra interessante dedicare una breve riflessione al senso della vita.
Per la verità ho sempre avuto la tentazione di andare in giro per il mondo a chiedere alla gente se è felice. Lo faccio molto spesso in realtà, in tutti i Paesi, dove mi capita. Se la conversazione s’allarga un po’, la butto là: ”Ma lei è felice?” “E tu? Sei felice?” A tutte le latitudini la reazione è sempre di grande sorpresa, larvato imbarazzo:

”Come felice?”
“Sì, felice”
“…così a bruciapelo…”
“Sì, così, d’istinto! Non si può rispondere alle domande più importanti riflettendoci”

È come chiedersi lo/la amo? Dev’essere un’evidenza. Il sì. Infatti spesso non arriva. Nella maggioranza dei casi, la testa ondeggia di qua e di là, s’attorciglia in modo complicato per dire e non dire:
”Mah, beh… – e poi per sottrazione – non mi lamento, ho questo e quest’altro…Felicità è una parola grossa!”
Grossissima, ne convengo. Ma semplice. E a forza di complicarci la vita su tutto, non siamo quasi più in grado di pronunciarla. Ne abbiamo un sacro terrore, roba da scemo del villaggio!

“Il fatto di progettare come arrivare a una meta, ci fa vedere il sentiero diritto, pieno di curve” dice il saggio. E certo ha ragione: primo ostacolo alla felicità è voler controllare tutto. La felicità ci sorprende se le lasciamo un po’ di spazio per respirare, liberare, rischiare delle gaffes, altrimenti è come pretendere di vincere alla lotteria senza comprare un biglietto”

Ma a questo punto si pone un altro problema: quanto chiedere alla vita (e a noi stessi)? Io le ho sempre chiesto moltissimo, lasciarmi soddisfare le mie passioni, i viaggi, lo scrivere, le case, d’amare e d’essere amata di vero amore…
Se si è esigenti, le delusioni sono sempre dietro l’angolo. La vita ha un peso, ma ti sorprende. L’altra è la soluzione buddhista, spesso genericamente riassunta e banalizzata nella frase “Non aspettarsi nulla”.

“No, per bacco! Se sono qua io mi aspetto, mi aspetto moltissimo! Se sono qua io ci provo a volare alto, senza contare che la felicità s’irradia, condivide, è utile a tutti – difficilmente un felice fa del male agli altri. E poi, che fine ha fatto la legge dell’attrazione?” ribattevo con la mia solita irruenza a José Alberto, un noto antropologo shamano di Mexico City. Lui si era limitato ad abbracciarmi forte e sorridere. Lo divertivo.
“Feliz? La questione non diventa più in questi termini, abbiamo diversi strati di coscienza, lo sai Francesca”

Lo sapevo certo, è più complesso. Ma anche un po’ inutile, come quando ti dicono che l’Universo è in continua espansione. Ok. Ma – continuo a abiettare – se tutto ciò che è, esiste in virtù dell’energia creatrice d’Amore, allora mi spiace miei guru, ma il problema della felicità umana resta.

Il Buddhismo più profondo invita in realtà a entrare in uno stato di non-mente, separato da passato e futuro, concentrato solo nel presente “mente vuota e cuore pieno” e li’ che si trova la felicità. Vero. Ma anche qui, ammettiamolo, la felicità su questa Terra si nutre di proiezioni sul divenire, progettualità. Come separare i sogni dalla nozione stessa di futuro?  

 

 

E allora? Allora, non si danno risposte in un blog, io mi limito a suggerire esplorazioni. E mentre scrivo, mi perdo in altre congetture, letterarie questa volta, penso a quella frase di Amos Oz in “Tocca l’acqua, tocca il vento”: “Cose sottili e sorprendenti succederanno presto” Ecco, sì, questa potrebbe essere una delle mie definizioni di felicità.

ORRORE NAZISTA E POESIA: L’ALBERO DI GOETHE

Avete presente il campo di concentramento di Buchenwald in Thuringia? Qualcuno forse, come me, lo avrà visitato con la scuola, di certo in molti lo hanno visto in film e documentari…

Si trovava sul fianco di una collina brulla, sferzata dal vento che d’inverno era glaciale. Ovunque filo spinato elettrificato. Le baracche allineate in un tetro ordine da avenue si mescolavano a caseggiati più grandi: quello della sala delle docce per la disinfestazione e l’ampio edificio del cosiddetto “servizio di patologia” con l’infermeria e i laboratori. Su tutto svettava il forno crematorio.

In mezzo a questo inferno, pochi sanno che vicino alle cucine, c’era un albero, un grande faggio. Fu pietosamente conservato perchè Goethe era solito venire a passeggiare da queste parti, nei dintorni di Weimar, per pensare e scrivere.

E’ difficile immaginare due momenti della storia tanto lontani e inconciliabili. Eppure quell’albero è stato testimone di atrocità e orrori quanto della più alta forma di creatività dell’uomo.

La morte per genocidio e l’immortalità dell’arte hanno alimentato il silenzio interiore di quel faggio e sarebbe bello potergli chiedere, a questo punto: “Qual è il significato della vita?” Probabilmente risponderebbe come il monaco buddhista Mumon Yamada “La vita non ha nessun significato e nessun non-significato, bisogna viverla!”

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IL BRUTTO VIZIO DI FARCI PAURA

Amo viaggiare. Anzi, di più. Direi che per me è una necessità vitale, un tesoretto che accumulo nel conto a mio nome presso la Banca dell’Esperienza. Alla fine sarò ricca e vivere avrà avuto un senso. Il termine “vacanza” ai miei occhi è sempre stata un abominio “vacante da chi? Da cosa?” Non sono mai tanto presente e ancorata alla vita come quando viaggio.

Le mura della cittadella di Gerusalemme

Insomma lo farei comunque… andrei, in ogni caso. Tuttavia non posso esimermi dal fare una riflessione a beneficio di quanti talvolta esitano a partire.
Sono appena rientrata da un soggiorno a Gerusalemme con mia figlia. “Gerusalemme? Che idea?” mi dicevano prima di partire “Sei sicura?” “Ma voi due da sole?”.

Ebrei in preghiera al Muro del Pianto

Non sono un’ingenua naturalmente. Ci sono periodi in cui in questo Paese, come in altri, ci vuole cautela. Da un giorno all’altro potrei essere smentita da una brutta notizia. E quando si parte non lo si fa mai da sprovveduti! D’altronde, tragedie d’ogni tipo si susseguono ovunque nel mondo da millenni e talvolta il nostro personale destino può incrociarsi con sventure più grandi.

Tuttavia, tengo qui a sottolineare come l’atmosfera nella città e in Palestina fosse tutt’altro che tesa, ostile, stressante, i controlli per accedere ai luoghi santi di tutte le religioni assolutamente ragionevoli e nella cordialità; al Check point per entrare in territorio Palestinese, a bordo di un semplice taxi, non ci hanno nemmeno chiesto i passaporti. Un caso fortunato? Può darsi. Ma non è la prima volta che ciò mi accade: nel Chiapas messicano, in Mauritania, nel sud del Marocco… ho riscontrato spesso come la gente, i luoghi fossero più accoglienti e più pacifici di quanto giornali e televisioni prospettassero.            

Il Muro di separazione costruito da Israele in Palestina con i murales di Banksy

Damascus Gate Gerusalemme

Si direbbe che qualcuno voglia deliberatamente mantenere alto nel mondo il tasso di paura, di diffidenza, di stress. Un senso di pericolo diffuso e costante aumenta e giustifica il potere dei Media, mantiene e approfondisce gli scontri culturali e politici fra i popoli. E se ognuno sta a casa sua è meglio, lo possiamo intossicare con le informazioni che preferiamo, lo possiamo spaventare con foto sensazionali (poco importa se spesso costruite come in un set cinematografico!) lo possiamo convincere che il suo modo di vedere è l’unico possibile e che deve vivere nell’inquietudine, nella convinzione che “fuori” ci sono sempre i lupi. 

Io continuo a credere invece che conoscere Paesi, parlare con la gente che li vive per davvero, permetta di farci un’idea meno schematica di come stanno le cose. Un’idea certo – non ho la pretesa di capire – ma posso guardare con i miei occhi, ascoltare, imparare e… sorridere, sorridere con gratitudine a chi mi consente d’entrare a casa sua. Perchè alla fine, non è questo che bisognerebbe fare? Come recita il Maestro Ejo Takata: “Per andare avanti faccio un altro passo, nel vuoto”. 

 

IL RITO DEL TEMAZCAL: LA SPA FISICA E SPIRITUALE DEI PRECOLOMBIANI

“Sancisce una vera e propria rinascita fisica e spirituale” Mi ripetevano tutti gli amici messicani, senza averlo beninteso mai provato personalmente. Potevo perdermi questa ennesima esperienza? Certo che no!

Ed eccomi dunque sulla strada per Coatepec, con tanto di autista e guardia del corpo, perchè il posto è selvaggio, immerso nella foresta attraversata da un rio roccioso, fra casupole aggrappate alla collina come per miracolo e un buio totale appena scende il sole (Ci fermeranno persino dei soldati della Guardia Nacional intenti a fare controlli) Quando scopriamo la porticina alla quale suonare, Juliano, il bodyguard è perplesso. Non si aspettava un posto tanto modesto. “Restiamo qui fuori per ogni evenienza” dice, toccandosi la tasca. È armato.

Eppure Guadalupe, la donna che mi apre, ha l’aria gentile e frettolosa di chi si è ben organizzata. D’altra parte, l’assoluta essenzialità della sua casa non dà una gran varietà di soluzioni. Mi fa entrare in una specie di corte interna, in parte col tetto di lamiera, in parte en plain air. Al centro, una capannuccia cilindrica, alta un metro e venti, in muratura, con un buco sul tetto, tappato da coperte. Sembra una tenda mongolica, bassa, per le renne. Scoprirò a mie spese che anche la temperatura esterna richiama la tundra. Cosa preoccupante perchè dopo un rapido tè dolcissimo che getto via quando non mi vede, devo mettermi in costume da bagno per iniziare la purificazione che si svolgerà in tre fasi.

 

Per affrontare la prima, mi porge una coppetta con cioccolato caldo e sali minerali. “Spargitelo dappertutto, io ti aiuto dietro”. Ho talmente freddo, là in mutande, nella tundra, che accolgo la proposta con il più grande entusiasmo, me lo sarei bevuto il cioccolato a dir il vero, ma intanto spalmo. Sul viso mi mette una maschera d’argilla, forse per evitare qualsiasi domanda generata dalla mia perplessità, perché la sento solidificarsi rapidamente come una maschera funeraria. Intanto l’effetto cioccolata calda è finito, sono una gelida mummia da pasticceria! Guadalupe intuisce che qualunque altra spiegazione va data al caldo e quindi m’invita nella grotta mongolica, dove attiva un brasero acceso. È qui che inizia la sauna.

L’originalità della cosa è che dobbiamo farla al buio, meditando, recitando preghiere e invocazioni dedicate ai nahuales del fuoco, aria, acqua, terra. Non contenta di avvertire il mio imbarazzo, mentre la cioccolata mi si solidifica addosso tipo barretta di Cioccorì e ripeto mantra in spagnolo, Guadalupe mi sorprende con getti d’acqua gelida o agitando mazzetti d’erba (di ruta) di un odore molto strano. “Perdona, pero es necesario” dice, poi comincia con le domande: “Cosa vedi? Immagina d’abbracciare un albero… descrivimelo…” Ora devo dirle cosa voglio lasciare dietro di me. Questo è molto interessante: “I dolori” dico, scoprendo subito che non è così semplice, ci affezioniamo anche a quelli. Comincio a sentire caldo finalmente, anche se il Cioccorì mi va dappertutto, vorrei restare là dentro. E invece no, Guadalupe mi dice che è ora di uscire e azionare, solo con la mano destra, una delle docce all’aperto.

“All’aperto???” Chiaro che non ce n’è altre. Le ho viste entrando, spartane, in fila, con le manopole di ferro arrugginite “E grida! Grida!” mi dice, mentre sono già piegata a 90 gradi per uscire dalla porticina della capanna. Chissà perché devo gridare… ho appena il tempo di pensare, mentre un violentissimo getto d’acqua gelata mi piove addosso. In effetti, grido.

“Insisti – dice Guadalupe – togli tutta la cioccalata”. È buio pesto nella tundra. Mi sbrigo, mi sciacquo e mi precipito nella capanna delle renne.“Come stai?” “Freddo” “ Perdona pero es necesario, sennò non urli fuori tutto ciò che hai dentro”

Siamo di nuovo al caldo e al buio e Guadalupe getta qualcosa nel brasero che fa un fumo strano che brucia gli occhi.”Ho preparato questo per te, con gli oli essenziali di cui necessiti, spargitelo su tutto il corpo usando i petali di rosa” Meno male che sono petali di rosa, al buio potrebbero essere anche lembi di pelle umana. “Spalmandoti questa pasta senza vederti, devi sentire le reazioni del tuo corpo” Effettivamente il mio corpo ha un sacco di domande, tutte riassumibili in una fondamentale: perché mi fai questo?

Le preghiere che Guadalupe recita sono molto poetiche semplici e antiche. Esprimono gratitudine alla Natura, umiltà, perdono. Ad un certo punto mi chiede di dedicarle a qualcuno. Le do il nome di mia figlia e la faccetta buffa della mia piccola inizia a rimbalzare fra le pareti della capanna. La rivedo a tutte le età. Devo essermi persa in una mia meditazione perchè ad un certo punto m’arriva una secchiata d’acqua fredda “Perdona, pero es necessario” la solita spiegazione “Devi chiedere cosa vuoi, ma non a voce alta. Perchè devi immaginare in grande” Altro punto interessante: sembra facile, ma messo di fronte all’urgenza della richiesta, ci devi pensare su!

Ormai lo so come va a finire. Mi aspetta la tundra, la doccia ghiacciata. “Grida!” figurati se non lo faccio! Devo eliminare ogni traccia di quella pasta su di me, fin nei capelli, altrimenti non posso tornare al caldo.

Terzo rientro. Altre erbe. Orazioni. Ringraziamenti. Secchiata d’acqua gelida in faccia, a tradimento. “No, non dirmelo, es necesario”.

Guadalupe prima di lasciarmi andare a fare la terza doccia siberiana, mi raccomanda di asciugarmi subito e vestirmi “Grazie tante, non intendevo tergiversare alla luce della luna” I miei vestiti sono dietro un paravento, umidi come funghi dopo la pioggia. Esplodo in uno starnuto, mentre mi porge il tè stomachevole di prima, ma adesso è caldo e ne bevo un po’ “Vedi ti stai aprendo, avevi un po’ di sinusite” Adesso mi verrà una broncopolmonite invece, penso fra me e me, mentre Guadalupe m’accoglie finalmente all’interno della casa. Accende una candela che mi dedica e finisce, anche lei, per raccontarmi la sua incredibile storia.

Dal Messico: A SAN JUAN de CHAMULA (Chapas) LA POLIZIA NON ENTRA

Oscar, l’autista, mi raccomanda di far sparire il cellulare, la macchina foto e di farmi piccola quando entriamo nella chiesa di S.Juan.

Una parola! In mezzo a gente alta un metro e cinquanta, capelli corvini e pelle color tabacco! Ma in realtà a me nessuno farà caso (e infatti qualche fotina l’ho scattata per voi he he…)

 

Questa follia è autentica e tutta loro: di una comunità che parla ancora un dialetto di derivazione Maya, figlia di gente che all’arrivo dei Conquistadores spagnoli, preferì il suicidio di massa.

L’interno della chiesa, priva d’altare ma consacrata cattolica a modo suo – un prete ogni tanto viene portato da San Cristobal a dir Messa per poi tornarsene via a far finta d’ignorare ciò che qui accade – è colorato e kitsch come un quadro di Frida Khalo: ai lati della navata centrale, una sfilza di statue di Santi e Sante rigorosamente separati, con altari e altarini pieni di fiori e festoni.

Ovunque candele in vetro e per terra, a steli lunghi e sottili consumate nei riti degli Shamani. Si cammina su un tappeto di aghi di pino continuamente raccolti e rinnovati, e tutto questo ammorba l’aria fumosa d’incenso, di profumo dolciastro di Natura che appassisce. 

La gente s’accalca ovunque, vestita in modo tradizionale: lunghe sottane nere per le donne e scialli ricamati a fiori sgargianti; gli uomini, col cappello da cowboy indossano cappotti e gilet di lana, pelosa come una pelliccia di fattura grezza, stretti da alte cinture. 

È così tutti i giorni. Intere famiglie s’accucciano per terra attorno al brujo. Sono venuti con il necessario, candele, uova, fiori, un gallo o una gallina.

 

Mi sistemo in un angolo alle spalle di una vecchia shamana. Da poco sono state ammesse anche le donne, ma è l’unica soddisfazione che avrò: in questo paese di 58000 abitanti, la donna deve servire l’uomo, camminargli un passo dietro.

A 13 anni è già sposa.

Vedo madri poco più che adolescenti, con bimbo stretto in una fascia sul ventre.

 

Il rito della bruja comincia.

Bisbiglierà orazioni per due ore, accendendo le candele in fila fino a consumazione. Sulla pozza liquida che si formerà, getterà Posh (un alcool a 60 gradi  che si passano anche per farsi un goccetto!) e Coca-Cola ( chissà perché).

La famiglia ha affidato la sua richiesta alla shamana, queste le prime offerte. Poi la vedo strofinare l’uovo su una donna che le sta accanto, forse malata, infine invoca l’aiuto divino agitandole addosso il gallo…È un attimo, con destrezza spezza il collo all’animale che non emette gemito. Apparentemente il rito è finito.

Oscar mi sussurra che ora andranno al fiume dove la malata, volgendo le spalle all’acqua, getterà il cadavere nella corrente. “Si porterà via il male”.

 

 

 

 

 

 

Mi sento in un posto molto lontano e senza tempo. Fuori, gli uomini “pelosi” mi guardano con arroganza un poco ostile. La mia amica Lucia mi raggiunge un po’ preoccupata:

“Vieni via, qui la polizia non ci prova neanche ad entrare”. “Ah! – lancio una seconda occhiata agli uomini di Neandertal – e se uno ha bisogno d’aiuto, chi chiama? Zorro???”

 

Dal Messico: IL BENE, IL MALE, LA CURA dell’ESPANTO

C’è una curiosa incongruità fra la semplicità genuina e un poco caciarona della gente nei paesi, il continuo Carnevale delle piazze e la profondità del pensiero che regge tutta la medicina tradizionale (precolombiana!). L’idea di armonia mente/anima/corpo per stare bene e la cura dei mali invisibili che ci portiamo dentro.

L’espanto, lo spavento ad esempio, può minare la salute di un individuo e frammentarne persino l’anima.

“Non lo curate in Europa?”. Gudelia è allibita, roba da terzo mondo!

Apparentemente io ne avevo molto bisogno. Nella cera rappresa del rito, la curandera ha letto una serie di traumi secondo lei ancora impressi nel mio subconscio e nel mio corpo cellulare. Alcuni non posso ricordarli, ma me li raccontò mia madre: ad esempio quando a un anno, per la distrazione della tata, caddi dal tavolo della cucina. “Fu più che altro un gran spavento per mia madre – precisai – e per la tata, conoscendo mia mamma deve aver passato un brutto quarto d’ora!”.

Gudelia scuote la testa: “È stato un espanto per te”. Mentre la guardo, ripenso al racconto di mia madre, alla sua paura perché per qualche minuto, come assente, non avevo neanche pianto.

 

Di traumi, ce n’è una serie, alcuni li avrei scritti anch’io in una mia ipotetica lista, altri per me erano minori. Superati.
“No, hanno condizionato la tua vita y el amor también”
“Anche l’amore?”
Gudelia sembra perfettamente al corrente del mio excursus sentimentale.
“Con la cura andrà meglio anche quello” afferma con la sicurezza di un cardiochirurgo.
“Ah sì? Meno male!” rispondo sollevata, mentre mi sdoppio per godermi la scena assurda di me, a diciassette ore di volo da casa, in un buco di villaggio sperduto nello Stato di Oaxaxa, intenta a discutere animosamente dei miei amori con una donna che li commenta senza sconti, come una zia.

 

 

“Ma ora i traumi sono risolti definitivamente Gudelia?”
È sempre il cardiochirurgo a rispondermi: “Si, terminado”

 

Per la prima volta mi sorride e io capisco perché in paese la chiamano segretamente la chimuela (la sdentata), ma guai a dirglielo -m’ha raccomandato il mio amico taxista- sennò s’offende!

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Alla prossima, dal Mexico!

Vuoi leggere altre storie dal messico? Dai un’occhiata ai miei articoli precedenti 🙂

Dal Messico: A TU PER TU CON LA CURANDERA

Gudelia è un personaggio da romanzo. Per quali complicate, misteriose vie del destino mi è stato dato il privilegio d’incontrarla, lo racconterò probabilmente nel prossimo libro. Resta nella mia mente, il piglio deciso e la calma monumentale di questa donna d’estrema povertà, alta una spanna e leggera come un giunco, che sa a malapena scrivere il suo nome, e quel modo di guardarti apparentemente senza intensità, mentre ti dice tutto di te. Tutto ciò che le interessa dirti… La sua storia è semplice e bella. Una nonna curandera dalla quale per 50 anni ha imparato tutto senza farci caso. Poi il grande dolore: la perdita del suo bambino di sette mesi e la “rivelazione” mentre pregava nella chiesa di Xoxocotlan:

“Devi aiutare gli altri, usare il dono per vivere, non per arricchirti” .    

Pero no soy bruja (shamana) soy curandera, practico las plantas y las flores “. Per “la limpia” il famoso rito di purificazione dai mali fisici e spirituali, usa un mix d’erbe che brucia ai tuoi piedi e uova crude, strumenti vivi che assorbono il male. Gudelia mi spiega, mi cura, non tenta di convincermi di nulla. La cosa sembra non interessarla affatto.

Ai miei tanti “perché ” risponde spesso:

“Non lo so, ma ha sempre funzionato”.

E in quel “sempre” io non ho difficoltà a immaginare le curandere delle antiche civiltà zapoteche lassù sulle montagne della Sierra che anche oggi si stagliano all’orizzonte sul cielo di un turchese invincibile.       

 

Ci diamo appuntamento per l’indomani mattina. Mi dirà tanto di più. “E tu mi scriverai il tuo nome per intero – mi dice – perché io continui la tua cura, pregando”.

Il quaderno che mi mostra è a pezzi, tutto sgualcito, perde le pagine. Leggo Paul S. Washington d.c. numero di telefono; Jane W. Ucla CaliforniaTerry S. Huston Texas… Il mio viso è tutta una sorpresa. “Si, sì vengono, mi chiamano anche al telefono!” “Come? Come fanno a conoscerti, Gudelia?” “Non so – risponde calma – ma funziona”.

INVOCAZIONE MAYA PER TUTTI

Cari amici di blog,
In quest’inizio d’anno tutto nuovo, spinta dal vivo interesse suscitato dal mio libro “Cosa fanno le mie piante quando non ci sono” m’accingo a dedicarmi a nuove ricerche. Se le più recenti scoperte scientifiche stanno ottenendo grandi risultati sulla conoscenza del mondo vegetale, non ho mai ignorato infatti, avendolo riscontrato in molti Paesi in Africa, Asia, Centr’America, che popoli molto antichi possedevano già saperi, intuizioni, tradizioni, spiritualità e cosmogonie, capaci di penetrare i segreti più profondi della Natura.

È con questa sete di conoscenza che parto per il Messico, negli stati del Chiapas, di Tabasco e dello Yucatan (culle della civiltà Maya-Tolteca) per apprendere da alcuni dei superstiti depositari di quei saperi qualcosa del senso profondo del nostro esistere in seno alla Pachamama, la Madre Terra. Per questi popoli, oggi come allora, per i curanderos e le curanderas (i guaritori e le guaritrici), gli Yerberos (gli erboristi), gli Hueseros (gli aggiusta-ossa), gli Hechiceros (gli spiritisti) noi tutti siamo parte della più ampia comunità della Natura. E soltanto con le piante, i minerali, gli animali, nella comunicazione con tutti questi elementi è possibile raggiungere quell’armonia necessaria al nostro benessere anche fisico.

Ognuno di noi rappresenta un filo nel grande tessuto della vita. Corpo, mente, energia, spirito dell’uomo sono intimamente connessi alla Terra, perché anch’essa è un organismo vivente cosciente, intelligente, fatto di materia, energia e spirito, capace di autoregolarsi. Le piante sono creature protette, significative, indispensabili, a loro volta nostre guide e nostre guaritrici.

La profondità di queste filosofie risiede tutta nella loro tradizione pratica, nell’educazione all’esperienza della percezione e nella serenità che esprimono anche questi pochi versi che riporto qui sotto, come augurio di semplicità felice per il nuovo anno a tutti noi….

 

 

INVOCAZIONE MAYA

In verità, due volte grazie, tre volte grazie!
Perché fummo creati, perché ci vennero date le bocche e i volti.
Parliamo, ascoltiamo, meditiamo e ci muoviamo.
Sentiamo molto bene, conosciamo ciò che è lontano e ciò che è vicino.
Così abbiamo visto ciò che è grande e ciò che è piccolo sotto il Cielo
e sopra la Terra.
Grazie a voi siamo stati creati, costruiti, formati, originati.
Nostro nonno! Nostra nonna*! ”

*Nella Cosmogonia Maya, Nonni e Nonne sono i grandi antenati, i Creatori-Formatori, il maschile e femminile della Creazione.